Antonio De Lisa – Confessioni di un lettore di gialli

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Antonio De Lisa – Confessioni di un lettore di gialli

In certi ambienti è sconveniente confessare di essere un lettore di gialli, anche se ora molto meno di una volta. Il giallo in Italia l’ha sdoganato Umberto Eco, è indiscutibile, prima lo si leggeva di nascosto in treno, come si nascondeva la copia di Playboy tra l’Unità e il Sole 24 ore. L’Italia è fatta così, siamo molto suscettibili verso le mode. Io sono un lettore (moderato) di gialli, anzi, posso dire che la mia avventura nel mondo dei libri è cominciata con il “Il mastino dei Baskerville” di Arthur Conan Doyle, all’età di 14 anni. Prima leggevo di malavoglia, anche se avevo cominciato già a comprare libri con i miei soldini, per esempio “Le mie prigioni” di Silvio Pellico, in un attacco di insania, ma solo perché mi piaceva la copertina verde. Pensare che rinunciai all’acquisto delle figurine dei calciatori e dell’ultimo numero del “Grande Blek” per comprare quel libro. Quando fecero un’indagine, alle medie, sui gusti letterari degli studenti io risposi, ma senza neanche pensarci, “libri di avventure”, perché avevo sentito che per la prima comunione si regalavano collezioni complete di libri di avventure. Libri di avventure io ne ho letti, sì, ma dopo i trent’anni. Per così dire, avevo vaticinato una mia passione futura.

In realtà non tento mai di scoprire il colpevole prima della fine di un romanzo giallo. Non ci penso, non mi sembra che sia importante, anche se forse è la cosa più importante in un giallo, il modo di celare le tracce dell’assassino. Guardo l’ambientazione, il modo di parlare dei personaggi, con una preferenza per chi vive di notte, tra bische, signorine dai costumi non irreprensibili, alcol costoso e angosce metropolitane. Ovviamente, sono gli americani i maestri di questo genere e quindi dobbiamo parlare di “noir” piuttosto che di “giallo”. Adoro gli investigatori con la gastrite, che non si scompongono davanti a minacce di morte efferata, dei duri cui non importa morire, che con la morte hanno un rapporto confidenziale.

Trovo che gli scrittori di gialli siano troppo indulgenti con i loro investigatori, li fanno interessanti, colti, musicofili, appassionati di jazz. I poliziotti che ho conosciuto io quando facevo il cronista di nera in un giornale sono appena più decenti dei fuorilegge che arrestano, ammesso che li trovino. I commissariati di polizia sembrano sempre delle palestre di pugilato di second’ordine, intrisi di puzza di sudore e noia e squallore. Non c’è niente di interessante. Allora capisco il fatto che chi racconta di delitti non vuole descrivere la realtà, ma percorrere una metafora. Il giallo si colora del desiderio così umano e così irrealizzabile di raggiungere la verità. Nei gialli si può afferrare la verità, svelare quella x incognita e irragiungibile che è il mistero della vita, secondo Kant.

Ho un lontano parente che fa il carabiniere, in un reparto speciale in una delle zone più difficili d’Italia, a Catania. Deve sopportare paziente, quando ci vediamo, la mia pressante richiesta di fatti, circostanze, avvenimenti, retate, pequisizioni e sparatorie a cui partecipa. Paziente lo è, ma non può dire più di tanto, poverino. Mi stupisce la tranquillità con cui rivela che in una data perquisizione hanno trovato a casa del sospettato armi, droga, bombe, di tutto. Ma come vive la gente? O sono io ad essere strano, con il mio tran tran quotidiano senza scosse? Non sarebbe meglio avere una bomba in casa? Comunque riverso tutte queste nozioni nei miei approfondimenti di diritto penale e ovviamente nella perlustrazione della letteratura giallistica.

I conflitti a fuoco che gli scrittori di gialli descrivono nei loro libri sono troppo ordinati, razionali, geometrici, puliti. Nella realtà sono molto diversi: uno solo capisce cosa sta succedendo, il capo dell’operazione, gli altri non capiscono niente, i contorni delle cose sfumano in un delirio di paura e attesa, spari e vieni sparato e senza giubbotto sei morto. E’ difficilissimo controllare la direzione del movimento e la provenienza del pericolo, il rumore degli spari stesso ti disorienta e non fai distinzione tra quello dei tuoi e quello degli altri. Sai solo più o meno che sono dall’altra parte. Quando chi affronti è veramente determinato e ha esperienza corri veramente un serio pericolo e hai la concreta prospettiva di trovarti con un buco in fronte.

Un amico che lavora in un giornale a Napoli mi ha raccontato che certi camorristi quando entrano in azione mettono nello stereo della macchina i neomelodici napoletani a volume da sordità, si strafanno di coca e partono all’attacco cantando a squarciagola. Me li immagino, che percorrono nervosi e tesissimi le strade di Napoli con il fuoco in corpo, pronti a riversarlo sulla vittima designata. Anche quando i killer partono in moto, c’è sempre una o più macchine di appoggio, con equipaggi al limite della schizofrenia per la quantità di polevere bianca che hanno sniffato. Un delirio di follia e di fuoco, con la colonna sonora di Gigi D’Alessio.

Stamattina sono entrato in una libreria che frequento per cercare un libro di Patrick McGrath, autore che mi piace sempre di più, perché mi sto facendo coinvolgere in quel sottogenere del giallo che è il giallo piscologico o psico-thriller. Cercavo “Tauma”. La nuova libraia, una ragazza che conoscevo perché l’avevo incontrata in una seduta di riflessione buddista – quando si dicono le coincidenze!- mi ha guardato con un strano sorriso. Al mio sguardo interrogativo ha alzato da sotto il banco della cassa il libro che sta leggendo lei, “Grottesco” di Patrick McGrath. Ho sentito nella schiena la scossa delle grandi occasioni.

“Trauma” è un libro che si annuncia veramente coinvolgente. Grosso modo le segnalazioni riportano la seguente trama: Lo psicoterapeuta Charlie Weir è figlio di una coppia con gravi problemi psicologici: il padre, debole e recessivo, è fuggito da una moglie depressa e soffocante, che si rifugia nell’alcol fino ad autodistruggersi. La madre ha sempre nutrito per Charlie un rancore di origine oscura e gli ha sempre preferito il fratello Walter, affermato pittore. Charlie si è separato dalla moglie Agnes, che lo ritiene colpevole del suicidio del fratello Danny: un ragazzo affetto da gravi problemi psichici, che Charlie non ha saputo curare. L’incontro con Nora Chiara, una ragazza che gli viene presentata dal fratello Walt gli cambia la vita, ma ben presto Charlie risprofonda in un altro rapporto problematico.
Sono uscito dalla libreria alzando il libro in segno di saluto.

Oggi una mia ex studentessa mi ha raccontato un fatto curioso. La sera prima aveva parcheggiato l’auto nei pressi di un ristorante e qualcuno le aveva rubato l’I-phone infrangendo il vetro di un finestrino. Stamattina si era fatto prestare il cellulare da un’amica e aveva chiamato il numero del suo I-phone rubato. Con sua grande sorpresa, qualcuno ha risposto alla chiamata, il ladro. Secondo la mia ex studentessa aveva una voce figa e si è rivelato molto simpatico, al punto di offrirle di incontrarsi per restituire il maltolto. Si sono incontrati e hanno parlato per tutto il pomeriggio. “E’ un gran figo, prof!”. Ma tu guarda … Come li debbo definire questi episodi? Micro-gialli, mini-thriller? Forse. La città si tinge di giallo a sua insputa.

Mi ha colpito la vicenda di quel ragazzo romano che ha infettato di Hiv le ragazze con cui ha avuto rapporti sessuali non protetti pur sapendo di essere malato. O meglio: mi ha colpito la vicenda delle ragazze infettate. Il ragazzo si chiama Valentino T. e ha 30 anni. «Non volevo fare del male è stata una leggerezza», ha dichiarato dopo l’arresto. Per il pubblico ministero, invece, si tratta di «lesioni personali gravissime e insanabili» nei confronti di sei donne (ma c’è ragione di credere che siano di più) e gli contesta l’aggravante dei cosiddetti «futili motivi». Perché sapendo di essere sieropositivo il ragazzo chiedeva alla partner di rinunciare al preservativo: migliorava la performance, massimizzava il piacere. Il resto era una lotteria, come lui stesso adesso ammette. Il giovane arrestato era un predatore da social network, adescava le ragazze su Facebook, Chatta e WhatsApp. Di quando in quando proponeva: «Facciamo sesso a tre?». In tante gli dicevano di sì. Il difensore che oggi lo assiste, l’avvocato Giuseppe Minutolo, usa la parola «superficialità» per spiegare l’incomprensibile. Per tentare di definire la bolla in cui vivono loro, gli adolescenti. «Le ragazze ci stavano, qualcuna mi rispondeva sì al primo invio. Non ho mai forzato nessuna, a loro andava di farlo così» dichiara Valentino T. dal carcere di Regina Coeli. E’ difficile essere comprensivi con un simile individuo. Ma non deve essere una specie rara, quella del predatore sessuale via Internet.

I miei amici mi prendono in giro perché comincio la lettura dei giornali dalle pagine di cronaca nera. E’ un’abitudine che mi porto dietro da quando facevo il cronista di nera in un giornale a Roma, negli anni Settanta, dove ne ho viste di cotte e di crude. Oggi la notizia rigiarda il delitto di Garlasco. L’unico imputato per l’omicio di Chiara Poggi, Alberto Stasi, è stato condannato in via definitiva. La Cassazione ha confermato la pena di 16 anni. Con questa decisione la Suprema Corte ha messo la parola fine a una vicenda giudiziaria iniziata otto anni fa. Chiara Poggi fu uccisa nella villetta di famiglia a Garlasco il 13 agosto 2007. L’11 dicembre la procura generale aveva chiesto a sorpresa l’annullamento della condanna sottolineando «la debolezza dell’impianto accusatorio». Ma la Suprema Corte ha deciso di convalidare la sentenza d’Appello bis che condannava Stasi a 16 anni di carcere e 1 milione di euro di risarcimento. Sono stati respinti sia il ricorso di Stasi sia quello della procura generale di Milano che chiedeva una condanna a 30 anni contestando l’aggravante della «crudeltà» dell’omicidio. E’ un sentenza che farà discutere: se è stato lui non si capisce perché non gli abbiano dato l’ergastolo; se non è stato lui, perché quei 16 anni. Non c’erano altri imputati che Alberto Stasi. Quel maledetto giorno è verosimile che fossero da soli Alberto Stasi e Chiara Poggi.

Quando arrivi a Potenza attraversando il ponte Musmeci, se sei dell’umore giusto potresti benissimo essere un James Ellroy che esplora Los Angeles. L’effetto è lo stesso. O quasi, dai. Se sei dell’umore giusto, cioé se sei capace di inabissarti nella Potenza notturna, che è più interessante di quella diurna; perde la sua immagine catto-provinciale, diventa un piccola metropoli che si erge nel nulla e pullulante di segreti. Magari non sapresti scrivere all’altezza della “tetralogia di Los Angeles” (Dalia nera, Il grande nulla, L.A. Confidential e White Jazz), ma sei sicuro che se scavi potrai trarne qualcosa di egualmente eccitante. O quasi, dai. Dallo scrigno della Potenza in versione notturna potrebbero uscire fantasmi massonici, scheletri nell’armadio, intrighi e misteri politici.

Vado a fare benzina al Motel Park, sulla Basentana. Mi fermo al bar per prendere qualcosa. A un certo punto vedo entrare due tizi che sembrano usciti da un romanzo di Saviano, un Gomorra remixato. Appaiono passabilmente trucidi e sotto un’ala del cappotto vedo un rigonfianmento che può significare solo una cosa. Prendono un caffè. Cerco di capire l’accento, improvvisandomi filologo e linguista. Forse pugliesi, meglio salentini. Vuoi vedere che è la malavita di Brindisi che va a smerciare a Salerno e Napoli. E quando dico “smerciare” non mi riferisco a innocui generi alimentari o o mobili da cucina. Fuori hanno parcheggiato il macchinone, dallo specchietto retrovisore interno vedo penzolare un crocefisso. Proprio lì vicino staziona una macchina della polizia. Fossi in loro darei un’occhiata nel portabagagli della macchina di quei due, invece di fermare dei pischelli per annusargli l’alito. Ma non lo fanno.

Le due chiese a Potenza hanno dimensioni totalmente diverse, come uno schizofrenico terminale: la chiesa della borghesia del centro storico che celebra se stessa in un moralismo perbenista cieco e imbelle e la chiesa della misericordia, che c’è, si vede, è attiva. Io non partecipo a nessuna delle due, non faccio parte della congrega. Oggi forse si sono riunite nell’apertura del Giubileo, con un elicottero dei carabinieri che svolazzava nel cielo freddo del capoluogo come se fosse stato imminente un attacco dei terroristi dell’Isis. Ma chi ha portato da mangiare ai migranti e ai senza tetto alla stazione inferiore non mi pare fossero religiosi. La schizofrenia della chiesa assume connotati che la portano ai limiti del dissidio: quella francescana e quella borghese ed edonista. La notte potentina lancia messaggi nel freddo.

Incontro in un bar nei pressi di Parco Mondo una compagna di scuola che non vedevo da trent’anni. Le offro qualcosa, lei sembra contenta di vedermi e anch’io, anche se in questi casi leggo nel volto e nelle rughe dei miei coetani il tempo che mi separa da quegli anni e non è un bel vedere. Non parlo della pancia o della cellulite e neanche delle rughe. Parlo di quello che si è spento dentro di noi, delle dislillusioni, delle sconfitte. Carla mi rivela che ha un figlio che non esce mai di casa, a vent’anni se ne sta tutto solo nella sua camera a vedere combattimenti di wrestling in televisione. Lei e suo marito sono disperati. Non sanno che fare. Neanche io saprei che fare e quindi non so dare consigli. Quel ragazzo è come l’immagine di un film di Tarkovsky, la fissità catatonica di quel ragazzo esprimevano la sconfitta del comunismo, rimasto senza parole; in questo caso l’ibernazione di un’intera generazione, cui non sappaiamo offrire niente, cupa e sofferente. Chi in una stanza, chi nell’altra, genitori e figli, ragazzi e insegnanti. Fuori brillano le luci di Natale.

Sto leggendo un giallo di uno scrittore scozzese in cui compare spesso la scena di una sala da biliardo. Il racconto è ambientato nella mala di Glasgow. Mi chiedo se a Potenza ci sia qualcosa di simile, stile “Romanzo criminale”, ma l’unica cosa che mi viene in mente è una scena da primi anni Settanta. Si trattava dei nostri filoni a scuola. La parola d’ordine era “struscio e ribuscio”. Lo “struscio” si riferiva alla passeggiata a via Pretoria, il “ribuscio” era un localaccio in un palazzo della medesima strada, in cui si fumava, si bestemmiava e si giocava a biliardino. Non so se quello fosse un luogo di reclutamento della mala locale, che tuttavia ha celebrato in grande i suoi fasti, ma molti anni dopo, affiliata alla ‘ndrangheta calabrese; sarei propenso a non crederlo. Ricordo il custode, obeso e con una sigaretta penzoloni da un lato delle labbra; non aveva l’apparenza del gangster.

Ho ricordato lo “struscio e ribuscio”; in realtà , a pensarci, una volta il centro storico di Potenza era molto più allegramente malavitoso; un po’ strapaesano, ma vitale, in cui era possibile nutrire l’ambizione di spensierate iniziazioni sessuali senza la paura dell’Aids, in case ben curate dove signorine con le gote rubizze fornivano certi servizi con l’aria di apparecchiare la tavola. Noi eravamo troppo piccoli per godere di quelle celestiali delizie, dovevamo accontentarci del racconto dei più grandi, che menavano una vita da nababbi, tra giuliette decappottabili e giuliette decappottate. La vita allora sembrava una specie di gioco, e senza malinconie felliniane.

Di che cosa si nutre la malavita per far prosperare i propri affari? Dei traffici di tutto quello che è proibito dallo Stato. Ma perché lo Stato proibisce? Che cosa difende, il proprio diritto ad esistere o la salute dei cittadini? Se si risponde positivamente alla prima domanda vuol dire che lo Stato difende la Morale. Il problema è capire da dove viene questa Morale. Ma anche il più distratto dei miei studenti saprebbe rispondre: dalla religione. Lo Stato si proclama laico ma si basa su una morale religiosa. Paradosso? Perché lo Stato dovrebbe proibire il gioco d’azzardo? A chi fa male il gioco d’azzardo? Nei paesi protestanti non è proibito, qui da noi sì.

Un vero giallista o un vero appassionato di gialli si pone una domanda basilare: perché il Male? E scrive o legge gialli perché non sa dare una risposta. La problematica della Mala è solo secondaria. Ma la Mala, come dicevamo prima, si basa sulle proibizioni dello Stato. La Mala non ha Morale, per definzione e prospera sulle leggi proibizioniste di chi ce l’ha. Facciamo un altro esempio: la droga. Qualcuno potrebbe sostenere che lo Stato non può permettere la diffusione legale della droga. Ma si potrebbe chiedere: perché mai? I cartelli colombiani e le mafie si basano su questi divieti. Lo Stato virtuoso permette la ricchezza del contrabbando per un astratto principio (morale). Si potrebbe sostenere: è un problema di salute. L’alcol non è un problema di salute? Ma la vendita è legale.

D’altra parte esiste anche un Male più privato. La problematica dello Stato non entra in questioni di omicidio per gelosia o interesse. Il Male privato nasce da considerazioni più basilari della natura umana. Freud lo chiamava desiderio di morte, una forma di libido rovesciata; desiderio di morte dell’altro, impulso distruttivo. E che c’è dietro quest’impulso? Non è forse una forma di dominio? Il Male privato e pubblico ha quindi a che fare col Dominio, col Potere, con l’esercizio della Forza. E questi elementi sono maledettamente umani. Gli animali non uccidono per il Potere, ma per la fame.

L’investigatore, in base alle considerazioni svolte in precedenza, è quindi un sostituto del filosofo. Cerca la verità. Intende illuminare con la luce della ragione quel mistero assoluto che è dare la morte a un essere umano da parte di un altro essere umano. Come? Perché?

La tentazione per un lettore di gialli oggi è forte e si chiama Arezzo. Sì, Arezzo. Nella provincia di quella simpatica città toscana abitava il venerabile Licio Gelli. In quella città si svolgono le vicende finanziarie e politiche della Banca Etruria, il cui vicepresidente ha qualche attinenza con le sfere alte del potere in Italia. Non ci sono legami tra le due cose, almeno non se ne conoscono; incuriosisce la circostanza che compaiano sui giornali nello stesso giorno. Il venerabile Licio Gelli, che presiedeva la Loggia P2 e manovrava i fili della politica e della finanza italiana, è morto due giorni fa. Sul suo abito funebre una spilla fascista sul risvolto della giacca e gli occhiali riposti nel taschino, all’anulare destro un anello con stemma nobiliare. il parroco della Chiesa della Misericordia di Pistoia, don Pierluigi Biagioni, durante l’omelia al funerale ha detto: “Il fatto che sia morto nell’anno giubilare della misericordia ci fa pensare che il cuore del signore è più grande e viene per purificarci”. Ma non è strano che venga celebrato in chiesa un celebre massone?

Sto chiedendo in giro ai miei amici se abbiano letto o conoscano un giallo basato su un delitto commesso senza premeditazione. Fino ad ora non ho ricevuto nessuna risposta positiva. Sembra che il plot di un giallo consista proprio in questo: qualcuno che progetta e commette un delitto, qualcun altro che lo scopre. Gli eroi sono due (con tutte le varianti possibili). E’ una sfida, un duello; forse perché una delle origini del giallo consiste proprio nel duello stile western. Per commettere un delitto è necessaria una gelida determinazione; chi intende scoprirne l’autore deve quindi dotarsi di una dimensione razionale superiore.

Appena espressa una tesi, compare l’eccezione. Questa eccezione si chiama Friedrich Dürrenmatt. Ne “La promessa – Un requiem per il romanzo giallo” (Das Versprechen), 1959, lo scrittore svizzero ritiene che al delitto non basta rispondere con la ragione, rivendicando il ruolo dell’imponderabile nelle vicende umane. Nel romanzo sono presenti in bella evidenza tutti gli elementi del genere: i colleghi, ottusi o altezzosi, che si rifiutano di prestare fede alle sorprendenti intuizioni del commissario; un delitto raccapricciante con drammatici precedenti; un presunto colpevole; e la sorpresa finale, con lo scioglimento del mistero e la rivelazione dell’autentico assassino. Tutto viene però parodisticamente distorto e deformato nella celebrazione funebre del personaggio del detective e del racconto giallo tradizionali. Dürrenmatt sostituisce alla morale pratica di ogni poliziotto (il delitto non paga) una morale metafisica in cui regna l’assurdo: il razionale non prevale affatto sul caos, o almeno non fatalmente, e chi fa affidamento sulla razionalità finisce per esserne la prima incompresa vittima.

Una cosa che ha preso sempre più piede negli ultimi anni è l’internazionalizzazione del romanzo giallo. Sembra che questo genere letterario sia uscito dai confini euro-americani e con molto profitto. Avete mai letto un giallo ambientato al Cairo? Lo scrittore egiziano Ahmed Mourad, autore di “Polvere di diamante”, è un outsider delle lettere, viene dal mondo della fotografia, ma non si direbbe. Ha una tenuta narrativa apprezzabile. La descrizione delle scene è sempre puntuale e i dialoghi sono sempre interessanti. Poi sa dare un sapore particolare alle pagine, così cairote, così ironicamente egiziane.
Mourad ha esordito con con “Vertigo”, che ha ricevuto a suo tempo una buona accoglienza. Ufficialmente fotografo della presidenza, Mourad cominciò a scrivere Polvere di diamante in seguito alla caduta di Mubarak e alla conseguente sua forzata inattività lavorativa.
Taha, il protagonista, è presentato come un farmacista annoiato che affronta gli stessi problemi di ogni egiziano, ma poi si ritrova in avventure che mettono alla prova i suoi limiti. La morte del padre di Taha per mano di un delinquente di strada lo costringe a vedere il mondo con occhi diversi, un sentimento che si fa più forte quando il ragazzo scopre il diario del padre, dove sono descritti i crimini che ha commesso durante la sua infanzia nel quartiere ebraico.
“Polvere di diamante è stato ispirato dalla visita che ho fatto nella zona ebraica del vecchio Cairo”, ha spiegato l’autore. “Andavo a zonzo per le strade e ho visto tutte quelle sinagoghe e quei simboli; quelle immagini sono poi diventate la base del mio romanzo”. E l’atmosfera del Cairo si può sentire tutta in questo romanzo.

Sono influenzato. Sto passando la mattinata tra letto e poltrona e continuo ad avere freddo. Io ho un solo modo per superare le difficoltà: pensare, leggere, scrivere. Riapro un vecchio taccuino e trovo questa perla, un episodio raccontatomi da una collega. Questa collega entra in classe per una lezione di educazione civica e parla dell’Europa e della sua bandiera, spiegando che il numero 12 delle stelle fu scelto come simbolo di perfezione e completezza (mentre il campo blu della bandiera intende richiamare il cielo ponentino scuro dell’occidente, in antitesi al cielo più luminoso del levante orientale). A un certo punto si alza una ragazza e dice, sorpresa: “Ma la mia prof delle medie ci aveva spiegato che le dodici stelle rappresentavano la coroncina della madonnina di Medjugorje”. La collega mi ha riferito che stentava a credere alle sue orecchie. “Ma possibile?” … “Possibile, possibile”.

Veramente non saprei spiegare perché a pag. 52 di “Sottomissione” di Michel Houellebecq ho pensato che la vera scienza regina di ogni investigatore non è la logica, ma la filologia. Non ci fate caso, mi capitano spesso questi flash. E tutti derivano da un’insoddisfazione per lo “scientismo” della cultura contemporanea. Non per la scienza, per lo “scientismo”. L’unico a sottrarsi a questo stato di cose è stato (quello che è giusto, è giusto) Umberto Eco, cha ha “inventato” un’intera scienza per superare quella scienza: la semiotica. Ma anche lui cade nell’errore del razionalismo. Scientismo e razionalismo non sono la stessa cosa, ma ugualmente pericolosi se portati all’estremo. L’alternativa è una dimensione sovra-razionale (non mistica né magica). Ma dovremmo inventare un’altra scienza.

Gocciolante e claudicante, rimetto timidamente in ordine la mia libreria, che col tempo si è trasformata in un mostro divorante. Un mio amico (illustre filosofo) visitando casa mia ha rivelato che gli sembrava di essere entrato per sbaglio alla Biblioteca nazionale. Questo mostro (la mia biblioteca) mi difende dal mondo, o meglio: da una visione borghese del mondo, secondo la quale non ci possono essere pile di libri nel corridoio dell’ingresso, sui divani, in bagno. Quando entro in una casa progettata in base a una visione (piccolo) borghese del mondo mi assale un senso di insofferenza, divento maleducato, irritabile, talvolta sguaiato. Mi viene voglia di graffiare un mobile o fare il segno di Zorro su una poltrona. No, io sto bene nel mio eremo.

E’ da un po’ di tempo che sto elaborando un concetto particolare: il “corpo-territorio”. Mi sembra che gli individui nutrano per il loro corpo gli stessi sentimenti che nutrono nei confronti delle loro proprietà. Ma mi scoppia un terribile mal di testa e devo mettere da parte, per il momento, queste riflessioni, rivolgendo una preghiera sommessa agli dei superni di non farmi ammalare, non riesco a sviluppare i pensieri se mi ammalo.

Dovendo definire la differenza tra chi uccide con premeditazine in ambito civile e chi uccide in guerra, mi è parso che questa definizione fosse la più appropriata: chi uccide qualcuno che si conosce è un killer, chi uccide uno sconosciuto è un soldato. Il primo è soggetto alla legge penale, il secondo no. Mi è però arrivata subito un’obiezione-domanda: l’individuo che entra in una scuola americana e fa una dozzina di vittime, cos’è? Ho tentato di formulare una risposta di questo tenore: è un killer che si comporta come un soldato. A pensarci bene vale anche per i terroristi.

L’orrore visto con gli occhi delle vittime. Koethi Zan è un’avvocatessa dell’Alabama al suo primo romanzo e riesce a non commettere gli errori degli esordienti, quello di affastellare le pagine con dettagli inutili. Il thriller in questione si intitola “Dopo”,  titolo originale “The Never List”, uscito negli Stati Uniti e subito divenuto un best seller, edito in Italia da Longanesi con la traduzione di Annamaria Biavasco e Valentina Guani. Koethi Zan va diritta allo scopo: l’orrore; o meglio: descrivere quello che viene dopo l’orrore.
Ma intanto facciamo conoscenza con l’autrice. Koethi Zan è nata e cresciuta in un piccolo paesino in Alabama. Si è trasferita a New York dopo aver vinto una borsa di studio all’Università di Yale. Dopo la laurea in giurisprudenza pratica l’avvocatura per oltre 15 anni, lavorando come legale presso case di produzione cinematografiche, studi televisivi e, recentemente, presso MTV. Ora vive a New York con il marito e i figli.
Fin qui l’autrice. L’eroina protagonista del suo romanzo forse un po’ le somiglia, soprattutto per un senso iperprotettivo delle persone care e la paura del futuro. Sembra naturale sprofondare in un thriller dai risvolti inquietanti. Un thriller che purtroppo ricorda molto da vicino storie vere di cui è inondata la cronaca nera, come quelle delle austriache Elisabeth Fritzl e Natascha Kampusch, della belga Sabine Dardenne. E poi di Jaycee Dugard e soprattutto di Amanda Berry, Gina Dejesus e Michelle Knight. Nomi e cognomi che parlano di segregazione e violenza, di «femminicidi» che qualcuno o qualcosa è riuscito a fermare poco prima dell’irreparabile, della morte, ma che nulla e nessuno potrà mai davvero “riparare”.
Ed è di questo che parla questo romanzo: di sequestro di persona e torture fisiche ma soprattutto psicologiche. Qui è anche la novità: A infliggere le torture a quattro donne è un professore di psicologia. Dopo dieci anni Jack Derber, accusato e imprigionato per rapimento, sta per essere rilasciato. Jack Derber, colpevole di aver rovinato per sempre l’esistenza di Sarah, la Narratrice, di Tracy, di Christine e di chissà quante altre (quante altre poi lo sapremo…), sta per ottenere la libertà condizionata.
Il meccanismo narrativo scatta a questo punto. Sarah non può consentirlo: Derber non è soltanto un rapitore. È un assassino. L’agente McCordy stimola Sarah-Caroline all’azione. Quest’ultima lo fa con riluttanza, ma comprende in qualche modo che è l’unica terapia possibile. L’impresa più ardua è coinvolgere le sue due compagne di sventura. Certe volte il passato è meglio seppellirlo.
Ma scavare nel passato di Derber, dell’allora stimatissimo professor Derber, significa scoperchiare il verminaio di vizi inconfessabili che lui nascondeva dietro la facciata di uomo fascinoso. Significa anche scavare nel suo passato di adolescente adottato da una famiglia un po’ stramba e diventato fratellastro di un altro tipo poi divenuto assai poco raccomandabile, un sedicente «pastore» di una Chiesa di provincia, una delle tante congreghe in cui il misticismo si confonde con la malattia mentale e gli istinti omicidi. Lì è la chiave che apre la porta sull’orrore. Lì è la traccia che ci fa tornare sul luogo dei delitti.
C’è una sola speranza, per tenere Derber in prigione: ritrovare il corpo di Jennifer. Da qui scaturisce una serie di colpi di scena nel profondo delle pieghe di una società americana di provincia che cela tutti gli orrori possibili.
L’autrice ha spiegato che questo non è «un thriller sulla ferocia degli uomini», bensì «un romanzo sul coraggio delle donne». Diciamo che forse è entrambe le cose.

Antonio De Lisa

 

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