Antonio De Lisa- Musica e mito- Prometeo e Pandora
E’ merito di quel ramo della musicologia che va sotto il nome di “librettologia” aver aperto nuove strade nella considerazione del rapporto tra testo letterario e testo musicale. Da questi studi prende le mosse questo contributo, con l’avvertenza che esso estende certi metodi, nati in origine per lo studio dell’opera lirica e del dramma musicale, anche a testi – talvolta sottintesi – usati come meccanismi generatori della cosiddetta “musica a programma”. E’ il caso qui di Skrjabin. Non entreremo minimamente, per il momento, nella questione dibattuta relativa a questo genere musicale. Ci limitiamo a controllare cautamente toni e metodi di ricerca per non aggravare il sospetto di strumentalità riservato a quella musica. Pertinente in questo contesto è esclusivamente la considerazione che quella musica è basate su una delle due figure centrali in questo contributo, quella di Prometeo e quella di Pandora. Questo lavoro intende, infatti, ripercorrere criticamente la storia musicale di quello che i greci chiamavano il Preveggente, visto in controcanto con la sua figura a specchio femminile, Pandora. Ma Prometeo, come vedremo, “colui che conosce prima” è figura ambigua: è anche colui che per primo manipola la tecnica. Inoltre Prometeo e Pandora rimandano al mito greco antico.
Chi è Prometeo? Il creatore, colui che plasma il primo uomo con l’argilla? Il salvatore, che ha vinto la morte con la speranza (si ricordino le parole di Eschilo nel Prometeo incatenato: “Io tolsi ai mortali la preveggenza della propria morte”)? Il liberatore dalla soggezione a qualsiasi autorità, così come è stato visto tra Sette e Ottocento? Il primo eroe della società della tecnica? Letteralmente Prometeo, figlio del titano Giapeto e della dea Temi o dell’oceanina Climene, significa “Colui che conosce prima”. Dei figli di Giapeto, Prometeo è il Preveggente e ha il contraltare nella figura di Epimeteo, il fratello stupido, che giungeva per ultimo a comprendere le cose. Erano fratelli di Prometeo anche Menete e Atlante. “I nomi di Prometheus il ‘preveggente’, il ‘provvido’ e Epimetheus, ‘colui che impara solo dopo’, l’’imprudente’, implicano già un riferimento ad esseri bisognosi di precauzione e minacciati dall’imprudenza, un riferimento agli uomini, specialmente per il fatto che il Provvido e l’Imprudente erano inseparabili l’uno dall’altro” [Kerényi 1951]. Sono gli emblemi di una prima umanità tutta maschile. “Con questa stirpe di maschi, i primi uomini, era collegata la stirpe titanica di Giapeto e innanzitutto due suoi figli, Prometeo ed Epimeteo […] Secondo gli Orfici, i Titani erano in generale gli antenati colpevoli degli uomini. Esiodo ci racconta che Urano li denominò ‘Titani’ con un gioco di parole oltraggioso, come se tale denominazione derivasse da titainein, ‘tendersi’ e da tisis, ‘punizione’: i Titani, nella loro temerarietà, si erano ‘tesi’ per compiere una grande opera e perciò più tardi furono puniti. Quest’opera non era stata intrapresa dalla linea Urano-Crono-Zeus, dato che i Titani non avevano partecipato alla mutilazione e al rovesciamento del padre, poiché erano ostili a Zeus, il figlio rimasto vittorioso. La loro caratteristica principale, la temerarietà (atasthalia) contraddistingueva anche gli uomini, che appunto perciò venivano sempre minacciati di distruzione dagli dei. La generazione di Giapeto, nella descrizione di Esiodo, appare composta interamente di malfattori puniti. la presentazione di questi Titani ostili a Zeus e agli dèi introduce la storia del genere umano” [Kerényi 1951].
Nella Teogonia (570-612) e ne Le opere e i giorni (47-105) di Esiodo si narra che Prometeo, contro la volontà di Zeus, avesse rubato agli dei il fuoco e lo avesse portato agli uomini. Nella tragedia di Eschilo, Prometeo incatenato, egli viene legato da Efesto per ordine di Zeus; Oceano e le sue figlie Oceanine (il Coro) lo compiangono per la dura punizione che sta subendo, ma lo rimproverano anche di tenere un comportamento arrogante nei confronti del padre degli dei. Questa tragedia, l’unica sopravvissuta di un’intera trilogia eschilea dedicata a Prometeo, rimanda alla parte successiva, il Prometeo liberato, in cui il protagonista è a conoscenza del segreto del figlio di Teti, elemento che alla fine gli varrà la libertà. Il terzo dramma si intitolava Prometeo portatore di fuoco. Degli ultimi due drammi possediamo solo frammenti
In quella mitica, cruenta e ancestrale lotta di potere dei Titani contro Zeus e le divinità olimpiche, Prometeo, pur essendo un Titano, si batté dalla parte di Zeus, aiutandolo a conquistare la sovranità. Quando però Zeus rivelò comportamenti tirannici, egli scelse la parte degli uomini e donò loro il bene dell’intelletto e altre abilità. Un dialogo tra Pometeo e il Coro nella tragedia di Eschilo costituisce il secondo episodio (vv. 436-525), in cui il Titano rievoca il proprio amore per gli uomini narrando dei benefici che loro elargì e che fecero passare il genere umano dallo stato ferino alla vita civile: l’astronomia, la scienza dei numeri, la scrittura, l’arte di addomesticare gli animali, la navigazione, la medicina, l’arte divinatoria e quella di forgiare metalli. Fu tutto questo a condurlo alla punizione presente: e qui Prometeo preannuncia la propria liberazione, ma ne tace il tempo e il modo.
Quando si dovette decidere quale parte degli animali doveva essere offerta agli dei, e quale invece gli uomini potevano tenere per sé come nutrimento, Prometeo, scelto come giudice, riuscì a imbrogliare Zeus. Coprì la carne migliore con le parti peggiori degli animali e avvolse gli scarti in abbondante grasso; Zeus si lasciò ingannare e scelse gli scarti. Infuriatosi, negò agli uomini il dono del fuoco. Prometeo allora lo rubò dalla ruota del sole o dall’officina di Efesto, il fabbro degli dei, e lo portò agli uomini. Zeus punì perciò l’umanità, mandando sulla terra la prima donna, Pandora. Prometeo fu incatenato in eterno a una roccia, sul Mar Nero, dove ogni giorno un’aquila veniva a mangiargli il fegato, che gli ricresceva durante la notte.
Alla fine Prometeo fu salvato da Eracle, figlio di Zeus, che uccise l’aquila e lo liberò. Zeus permise questa azione, orgoglioso per l’eroismo del figlio: probabilmente egli stesso era interessato alla liberazione, poiché Prometeo lo aveva avvisato prima della sua unione con Teti, che il figlio che sarebbe nato era destinato a diventare più potente del padre. Prometeo ottenne l’immortalità dal Centauro Chirone, che, essendosi ferito ed essendo afflitto da strazianti dolori, voleva cedere questo privilegio, pur di poter mettere fine alle sue sofferenze.
Pandora, da parte sua, è considerata la prima donna del genere umano; fu creata, per ordine di Zeus, da Efesto, che la trasse dall’argilla, per procurare agli uomini le sciagure più terribili.
Con la creazione di Pandora Zeus volle vendicarsi di Prometeo. Gli dei donarono alla donna le doti più funeste: da Atena, Afrodite, le Ore e le Cariti ricevette una bellezza seducente. Ermes le donò la mendace astuzia e la condusse, come regalo degli dei, a Epimeteo, il fratello stolto di Prometeo. Questi, nonostante gli avvertimenti del fratello, commise l’errore di sposare Pandora. Ella aveva ricevuto dagli dei un vaso, pithos (in seguito, la tradizione parla piuttosto di una cassa o di una scatola) che era pieno di tutti i mali. E poiché non poté vincere la sua curiosità, aprì il vaso, sicché l’intero contenuto fuoriuscì e tutti i flagelli si abbatterono sull’esistenza fino ad allora felice degli uomini (di qui il nome di Pandora, ossia “dotata di ogni dono”). Quando il vaso fu richiuso, solo la Speranza rimase sul suo fondo, cosicché essa fu sottratta agli uomini. Versioni successive riportano invece che nel vaso si sarebbero trovati invece tutti i beni, i quali dopo la sua apertura sarebbero immediatamente svaniti; solo la Speranza sarebbe rimasta allora agli uomini.
Accanto a Esiodo la storia di Pandora si trova menzionata occasionalmente presso alcuni mitografi posteriori. Dell’opera satirica di Sofocle, Pandora, è noto soltanto il titolo.
Parlare delle co-implicazioni di musica e mito significa in questo contesto riaprire la tensione di un “disagio”: “Il ‘disagio’ che la forma simbolica porta scandalosamente alla luce è quello stesso che accompagna fin dall’inizio la riflessione occidentale sul significare, il cui lascito metafisico è stato raccolto senza beneficio d’inventario dalla semiologia moderna. In quanto nel segno è implicita la dualità del manifestante e della cosa manifestata, esso è infatti qualcosa di spezzato e di doppio, ma in quanto questa dualità si manifesta nell’unico segno, esso è qualcosa di ricongiunto e di unito. Il simbolico, l’atto di riconoscimento che riunisce ciò che è diviso, è anche il diabolico che continuamente trasgredisce e denuncia la verità di questa conoscenza” [Agamben 1993:pp. 160].
Al di là di certe suggestioni reciproche, bisogna però dire che la musica arriva a certi risultati con i propri mezzi, che sono quelli di una certa “sapienza intuitiva del mondo”, che fornisce l’iniziazione al pensare come “pensare per suoni”. A un percorso storico si può affidare il compito di analizzare caso per caso quando e dove poi il mito si concretizza in qualcosa di specifico per questo o quel compositore. Più in generale, cercando però di evitare per quanto possibile la fallacia di ragionamenti non argomentati (per parlare del mito non è necessario assumere il suo modo di parlare), sembra che un archetipo mitico entri in gioco come elemento unificante, quello del labirinto. Il labirinto è il topos all’interno del quale vive il mito.
“L’interdipendenza fra i miti e i simboli implica che le trasformazioni che causano la corrispondenza fra i miti siano analoghe a quelle geometriche. Le difficoltà a cogliere il senso finale del mito sono le stesse che incontriamo nella definizione del simbolo geometrico. Osservando dei tropi metaforici o delle inversioni, possiamo comprendere solo in che modo veniamo colpiti da una nuova immagine, ma non sappiamo cogliere contemporaneamente la complessità e il significato della trasformazione in corso. Anche ogni tropo o mutamento metaforico corrisponde a una geometria e a un’algebra, che rispecchiano avvenimenti del gioco cosmico, biologico e psicologico […] Il mito è esemplare per la sua capacità di mantenere in equilibrio il collegamento fra tutti i significati possibili. Esso occulta il significato del tutto” [Conty 1996, pp. 164-65]. Si dovrà andare tuttavia, nella nostra prospettiva, al di là di una visione neo-classica, celebrativa, del mito, per giungere a coglierne la dimensione drammatica: “Nostro emblema – sulla scorta di Kerényi – potrà divenire allora il Labirinto distrutto (Zerstörtes Labyrinth) delineato nel 1939 da Paul Klee, esito estremo dell’antico mitologema, che ribadisce la volontà di ricerca. La ricerca, soltanto, conta” [Kerényi 1983].
La seconda metafora che prendiamo a prestito per poter parlare in maniera non ingenua del mito è quella dello specchio, imparentata col labirinto: “Introducendo il suo studio su quella ‘leggenda scientifica’ che Lo Specchio racconta, Jurgis Baltrusaitis faceva notare che ‘allegoria della visione esatta, lo specchio lo è anche del pensiero profondo e del lavoro dello spirito che esamina attentamente i dati di un problema. ‘Reflectere’ non significa forse ‘rinviare indietro’, ‘rispecchiare’ e ‘riflettere-meditare?’ Il processo mentale del rinviare per riconsiderare è indicato con termini di ottica” (…) Riflessione e speculazione sono i ‘nomi del pensiero’ in cui, soprattutto a partire dall’epoca moderna, si è nascosta un’antica ‘metafora dormiente’, quella metafora dello specchio che il tramonto dell’organizzazione del sapere pre-classico ha consegnato in toto alle complesse strategie del soggetto” [Tagliapietra 1991: p. 172].
Prometeo e Pandora si riflettono l’uno nello specchio dell’altra. Il transitare del senso dall’uno all’altra trama il mito. Prometeo e Pandora in questa prospettiva vanno visti insieme. Conquista e dissipazione. Anzi, probabilmente nello slittamento di alcuni significati dall’uno all’altra consiste la declinazione di questo mito in epoca moderna. Prometeo stringe; è stretto da catene. Pandora libera dissipando, e dissipando è liberata dal potere delle catene. E’ un gioco privo di dimensioni dialettiche, brutale, dove la conoscenza è legata a una catena, la libertà alla perdizione. Non è solo questione di rapporti – e lotta- tra i sessi. E’ questione di un unico inestricabile groviglio. L’unica parola che lega l’uno e l’altra è Elpis, la Speranza, quella che Prometeo ritiene di aver dato al mondo (“Prometeo: Io tolsi ai mortali la preveggenza della propria morte. Io: e quale rimedio trovasti a questa malattia? Prometeo: Insinuai in loro cieche speranze” nel dialogo di Eschilo), l’unico bene che resta nel vaso di Pandora dopo che sono svaniti tutti gli altri o l’unica cosa che rimane nel vaso dopo che si sono sparpagliati tutti i mali del mondo.
Della ricca storia musicale di Prometeo e Pandora [1] in questa sede si sceglieranno alcuni momenti significativi: Prométhée -Le Poème du feu, Op. 60 (1911) di Alexander Skrjabin; Lulu di Alban Berg (1937); Prometeo– Una tragedia dell’ascolto (1984-85) di Luigi Nono.
Prométhée -Le Poème du feu, Op. 60 (1910)
di Alexandr Skrjabin
Eseguito per la prima volta a Mosca il 15 marzo 1911 sotto la direzione di Sergiei Koussevitzky, con l’autore al pianoforte, Prométhée -Le Poème du feu fu composto in gran parte a Bruxelles, dove Skrjabin viveva nel 1909, poi finito dopo il ritorno a Mosca l’anno successivo. E’ l’ultima opera sinfonica di Skrjabin, (“’Sinfonia’ perché come l’Estasi, segue la forma sonata e ‘Poema’ perché è libera, con lo sviluppo e la coda più lunghi dell’esposizione e della ripresa” [Bouwers 1973]), che non scriverà da allora in poi che opere pianistiche. E’ insieme il compimento logico e la conclusione di una evoluzione mistico-musicale di cui la Terza sinfonia e il Poème de l’Extase avevano segnato le tappe intermedie. In Prométhée, provvista anch’essa di un organico orchestrale titanico (fiati, ottoni, percussioni, una celesta, un organo, due arpe, un pianoforte solista, un coro voci miste, utilizzato come gruppo strumentale, che canta cioè senza testo, su delle vocali.) Skrjabin ha tentato di mettere in pratica la sua teoria della sintesi delle arti aggiungendo alla partitura un rigo per uno strumento da lui concepito e chiamato “luce”: si tratta del fantomatico “clavier de lumières” (letteralmente “tastiera per luce”, una specie di tastiera immaginaria in grado di emanare fasci luminosi ) e di cui ciascun tasto avrebbe dovuto produrre una luce di cui il colore doveva corrispondere alle armonie e ai timbri musicali. Il “clavier” non è mai entrato in uso malgrado qualche saggio isolato. La nota superiore del rigo di “luce” indica la tonalità e ne segue le modulazioni, quella inferiore, invece, è “mistica, una progressione per toni interi che rappresenta l’inspirare e l’espirare del Brahman, l’evoluzione graduale della razza” [Bouwers 1973].. Skrjabin pretendeva di far seguire allo spettatore lo sviluppo delle modalità attraverso i colori. Questo è lo schema delle corrispondenze tra tonalità e colori: Do rosso, la volontà
Senza possedere un programma scritto l’opera si iscrive nel solco del Poème de l’Extase per la sua idea generale del dispiegamento di una forza creatrice cosmica e per il significato collegato ai suoi temi (il “Principio creatore”, la “Volontà”, la “Ragione”). Prométhée si apre con il famoso “accordo mistico”, costituito da sei note, in un sordo tremolo dove si può scorgere un’evocazione del caos primordiale. I temi sono evocati dai corni, dai legni, dalla tromba. Bien presto l’entrata del piano, la cui parte è di considerevole importanza, marca il punto di partenza di un movimento dinamico. Il violino solo – la cui presenza è una caratteristica di tutte le opere di Skrjabin – replica al pianofote. Momenti di effervescenza si alternano con delle fasi misteriose. Il crescendo comincia a partire dall’indicazione “subito molto dolce e gioioso” – dove il movimento ascensionale si precisa e dove gli aggregati armonici si rasserenano. Come accade spesso nelle opere di Skrjabin il culmine dell’intensità si crea attraverso episodi di riposo e di diversione, dove le forze sembrano ricostituirsi. Qualche pagina tutta tramata di trasparenza e sottigliezza (trilli al violino e ai flauti) precede un nuovo flusso di energia. La materia sonora si configura in seguito in un vero frammento di concerto per pianoforte, di una scrittura leggera, scintillante. E’ all’indicazione “estatico” che comincia la fiammata finale, con l’entrata del coro e dell’organo. Una ripresa dell’episodio pianistico precedente sfocia sulle battute conclusive che coronano l’opera di un supremo incanto. Uno schema analitico dettagliato si trova in [Collisani 1977].
Marcando l’affrancamento definitivo dalla tonalità a profitto di un nuovo sistema armonico, anche se non rappresentano che una riuscita parziale delle ambizioni filosofico-estetiche del suo autore, i 20 minuti di musica del Prometeo skrjabiniano marcano una tappa profetica nell’evoluzione sonora del XX secolo. Comparati al Poème de l’Extase, testimoniano di una maggiore moderazione quanto all’effetto esteriore, con un impiego dei diversi mezzi orchestrali orientati più verso la varietà dei colori sonori che verso l’effetto di massa, con il paradosso – anch’esso profeticamente moderno – di una varietà di effetti e di spinte della materia sonora all’interno di un universo statico.
Dal punto di vista interiore, invece, “Prometeo è la composizione più densa di teosofia che sia mai stata scritta. Il suo simbolismo è infinito
Lulu di Alban Berg (1937)
La Lulu di Alban Berg (1885-1935) consiste in un prologo e tre atti su libretto proprio, da Erdgeist (Lo spirito della terra) e Die Buechse der Pandora (Il vaso di Pandora), 1904, di Franz Wedekind. La prima rappresentazione avvenne allo Stadtheater di Zurigo il 2 giugno 1937. Lasciata incompleta dall’autore al terzo atto, Lulu fu rappresentata nel 1979 all’Opéra di Parigi, diretta da Pierre Boulez e con la regia di Patrice Chereau, nella versione ultimata da F. Cerha. L’autore non era riuscito ad assistere ad alcuna rappresentazione della sua seconda opera, per via della sua morte prematura, se non nella forma dell’esecuzione viennese di alcuni brani sinfonici. Per motivi di salute non era potuto andare nemmeno a Berlino nel 1934 all’esecuzione di brani sinfonici diretti da Erich Kleiber. Alla sua seconda opera Berg lavorò dal 1928 sino alla morte, con due interruzioni per comporre l’aria da concerto Der Wein (1929) e il Concerto per violino (1935). Il primo incontro con uno dei due drammi di Wedekind risaliva al 1905, alla rappresentazione viennese del Vaso di Pandora organizzata da Karl Kraus in forma privata per eludere la censura. La decisione di trarre un’opera dai due drammi fu presa solo nel 1928, dopo lunga incertezza tra questi e Und Pippa tanzt di Hauptmann.
Ricordiamo la trama. Il prologo si apre con un domatore (basso) che presenta al pubblico Lulu nelle sembianze di un serpente che reca sventura a chiunque l’avvicini. Oltre a una musica da circo, che sarà il ritornello ricorrente nella prima scena del terzo atto, si ascoltano alcuni dei temi fondamentali dell’opera, relativamente alla presentazione degli animali: il dottor Schoen è la tigre, Lulu il serpente.
Atto primo – scena 1a: Il pittore, Walter (tenore), sta dipingendo il ritratto di Lulu (soprano), in costume di Pierrot. Assistono alla scena Ludwig Schoen, ex amante di Lulu, e il figlio di questi, Alwa, un compositore, andato a prendere il padre per assistere alla prova generale del suo balletto. I due si allontanano e la donna si getta fra le braccia del pittore; entra improvvisamente il vecchio Goll, il primario, marito di Lulu il quale, vedendo il tradimento della sposa, muore ucciso da un colpo apoplettico. Il pittore è sconvolto dall’indifferenza di Lulu. Scena 2a: Lulu, divenuta moglie di Walter, apprende che il dottor Schoen si sta per sposare. Arriva a casa il vecchio Schigolch (basso), venuto a far visita a Lulu e achiederle del denaro, che, appena compare Schoen, si allontana. La figura di Schigolch, il vecchio mendicante, appartiene al passato della donna, ma su uno sfondo nebuloso e incerto (è stato suo amante ma non è suo padre, come crede Schoen). Il dottore rivela a Walter la vita dissoluta di Lulu e gli confessa di avere lui stesso acquistato i suoi quadri, per permettere alla donna un tempo amata di vivere decorosamente. A questa notizia il pittore resta sconvolto: allontanatosi, si uccide. Scena 3a: Lulu, divenuta ballerina di varietà, sta iniziando uno spettacolo teatrale. Entrano in camerino Alwa e un principe (tenori), innamorati di lei. Quando Lulu va in scena Alwa dice che su di lei si potrebbe scrivere un’opera interessante e in orchestra si sente l’incipit del Wozzeck. Vedendo in platea la futura sposa di Schoen, Lulu si rifiuta di esibirsi e il dottore, incontrando dietro le quinte la donna che aveva amata un tempo, se ne innamora nuovamente e rompe il fidanzamento.
Atto secondo – Scena 1a: Schoen, diventato marito di Lulu, è geloso degli amici della sposa. Vengono a trovarla Schigolch, Rodrigo (basso), uno studente e la contessa Geschwitz, affascinati dalla padrona di casa. Alwa resta solo con Lulu e le confessa appassionatamente il suo amore. Irrompe improvvisamente Schoen, dopo aver assistito alla scena; segue un violento litigio durante il quale il dottore resta ucciso. Intermezzo cinematografico al centro del del secondo atto: Viene proiettato il processo a carico di Lulu. La donna è condannata ma riesce a fuggire dal lazzaretto grazie all’aiuto della contessa Geschwitz. Scena 2a: Passati alcuni anni, Alwa ripete a Lulu la stessa dichiarazione d’amore fatta molto tempo addietro. La donna, con gelida freddezza, gli ricorda che è seduto sullo stesso divano sul quale aveva ucciso il padre.
Atto terzo – Scena 1a: Si festeggia il compleanno di Lulu a Parigi. Alla fine Lulu, per sottrarsi al Marchese (Casti-Pani), che in questa città la sfrutta come prostituta, fugge a Londra, non prima di una serie di disavventure finanziare toccate ad Alwa. Scena 1b: In una squallida soffitta londinese Lulu vende i suoi favori per sbarcare il lunario e per mantenere Schigolch e Alwa morente. Il cliente che arriva per primo è un professore muto (la cui musica richiama quella del primario). Giunge poi la contessa Geschwitz che, ormai anch’essa rovinata, porta con sé il ritratto di Lulu vestita da Pierrot. L’ultimo cliente è Jack lo squartatore. Subito dopo che i due si sono chiusi da soli in una stanza, si ode un urlo: Jack esce sporco del sangue di Lulu e uccide la contessa Geschwitz, sulla cui invocazione a Lulu finisce l’opera.
Il passaggio e la trasformazione del mito ci appaiono segnati. Col Prometeo la cultura occidentale aveva inscenato la conquista, con Lulu-Pandora ne celebra la dissipazione. Nelle figure a specchio di Prometeo e di Pandora (legati dalla figura della stupidità di Epimeteo, che forse non è del tutto un azzardo immaginare come progenitore di Jack lo Squartatore e di Morsbrugger dell’ Uomo senza qualità di Musil), la recursione del conflitto arriva fino all’esito finale di essere soppressi da Jack lo Squartatore, concupiti e soppressi dal bruto. In un certo senso questo mito a incastro ha operato come un “polarizzatore” nel senso attribuitogli da Aby Warburg: “Se è vero che, nella storia della cultura, le grandi innovazioni si operano spesso a partire da elementi ricevuti dalla tradizione, è però altrettanto vero che le ‘polarizzazioni’ attraverso cui un’epoca afferma la propria novità rispetto al passato sono, in generale, rese possibili dalla preesistenza, in seno all’eredità trasmessa dalla tradizione, di una tensione potenziale, che viene appunto riattualizzata e polarizzata nell’incontro con la nuova epoca (Aby Warburg parlava, a questo proposito, dei simboli culturali come di ‘dinamogrammi’ o condensatori elettrici che trasmettono una carica energetica in tutta la sua tensione, ma senza caratterizzarla semanticamente in modo positivo o negativo)” [Agamben 1993: pp. 138-9].
“Lulu si proietta in una dimensione surreale, come un vaudeville tragico, quasi un’ironica danza di morte. Segnata da un sorta di ironia post-apocalittica, Lulu è un capolavoro di labirintica complessità
“Con Wedekind abbiamo capito – avrebbe detto l’autore – che la sensualità non è una debolezza… è piuttosto una forza enorme che risiede in noi”. Una scelta che gli doveva costare cara: quella della Lulu fu definita, tra le altre cose, una “musica per puttane”. Urgestalt des Weibes, Lulu si lascia alle spalle un certo clima Jugendstil della Vienna dell’epoca per iscenare lo scardinamento dell’ordine apparente del mondo.
Il Prometeo – Una tragedia dell’ascolto (1984-85), di Luigi Nono
Prometeo condivide, e con lui gran parte della musica moderna, anche una parentela – sia pure ideale e a un grado diverso di ordini terreni – con Dedalo, l’ingegnere dannato. “Chi cerca soprattutto la libertà, presto desidererà una libertà estrema, ma a poco a poco, quanto più si scatena la sua fantasia libertaria, si struggerà di trovare l’incanto di più rigorosi, anzi fin sovrumani, inumani ordini. Questa mescolanza di focosa dismisura e di gelida riduzione è una legge fondamentale della musica manieristica (…) Con una trattazione della musica manieristica noi ci avviciniamo al centro del Labirinto, al suo creatore, al primo inventore, all’ingènieur damné, Dedalo” [Hocke 1959: pp. 223-224]. Su questo campo Dedalo ha coniugato una micidiale alleanza, tra tecnica e sapienza, dove la massima promessa di redenzione avrebbe coinciso con il massimo rischio di perdizione.
Un mito come quello di Prometeo è consentaneo a uno spirito d’avanguardia. Hocke con le parole citate si riferiva a Schoenberg, il venerato maestro di Berg. Conoscere per primo, portare per primo. Le opere “mitiche” di Skjabin e Berg sembrano accomunate da quest’unico elemento, anche se con esiti diversi: l’innovazione del linguaggio musicale (l’accordo sintetico di Skrjabin, l’essere la Lulu la prima opera dodecafonica). Ma ridurremmo il mito a ben poco se non ci vedessimo un elemento radicalmente filosofico, il rapporto col “limite” e con la sua ombra. Questo dovremo percorrere ora come esito supremo di una tragedia dell’ascolto, nel Prometo di Luigi Nono, che ci avviamo a prendere in considerazione in conclusione del nostro discorso.
Composta nel quinquennio 1980-85 la terza opera di Luigi Nono (1925-1990), su testi a cura di Massimo Cacciari, a venticinque anni di distanza da Intolleranza 1960 e a dieci da Al gran sole carico d’amore, sembra aderire pienamente alle parole di Kerényi citate: “La ricerca, soltanto, conta”, trattandosi di una ricerca sulle modalità stesse del “ricercare”. Nono qui scandaglia territori sonori nuovi e verifica modalità espressive inesplorate, servendosi delle tecnologie più avanzate legate alla musica informatica in tempo reale. Con il Live electronics Nono penetra all’interno stesso della materia, rivoltando il suono, frantumandolo in tutte le sue componenti fisico-acustiche, assaporando i cambiamenti più impercettibili del timbro, esplorando tutte le infinite possibilità spaziali della chiesa sconsacrata di San Lorenzo a Venezia, dove avverrà la prima rappresentazione il 25 settembre del 1984 o dello stabilimento Ansaldo di Milano in occasione della seconda versione il 25 settembre 1985. Quest’idea dell’infinito possibile, di matrice leibniziana e in dichiarata contrapposizione a una visione cartesiana, percorre le idee guida sia di Nono che di Cacciari.
Ricorderà Nono: “Alla base del Prometeo ci sono lunghe conversazioni con Massimo cacciari. Partimmo dal Prometeo di Eschilo, ma attraverso quelle conversazioni tutto si evolveva continuamente. In nessun caso volevamo riproporre una lettura di Prometeo legata alla mitologia e neppure ci interessava l’immagine di un Prometeo progressista. I nostri punti di riferimento erano Nietzsche e Benjamin, per cui trovavamo un Prometeo-Wanderer continuamente proteso nella ricerca di nuove ‘leggi’ con cui buttare all’aria quelle precedenti, in una parola la continuità prometeica senza fine. L’idea originale di Cacciari fu quella di concepire l’’opera’ come un arcipelago formato da tante isole. Non scene dunque, ma isole, sicché il cosiddetto percorso dell’’opera’ si sarebbe configurato come una navigazione vagante fra queste isole. Di qui nacquero i primi progetti che riguardavano allora il piano visivo. Con Renzo Piano avevamo parlato della possibilità di avere isole sospese negli spazi e varie cantorie. La navigazione dall’una all’altra si sarebbe potuta inventare anche proiettando sulle pareti e sul pubblico una specie di rotta luminosa di colori, come sulle mappe di navigazione a colori del ‘400 e del ‘500” [Restagno 1987:p. 70].
“Ekdika, le ‘cose che sono fuori di Giustizia’, è questo che subisce Prometeo” – ha scritto Cacciari – “questa è l’accusa straordinaria, il suo grandioso canto di lamento e di accusa. Forse l’idea stessa è uscita precisamente dal passaggio nel quale Titano si indirizza alla Terra, si indirizza all’Oceano che, come un fiume di morte, abbraccia anche gli dei: Giustizia è infranta, questo simbolo di polemos e philìa, di guerra e di amicizia di cui ella possedeva la cura, caduta, infranta. E’ Prometeo che lo riconosce – egli che il “prometeismo” romantico che tutta la tradizione umanista vedeva come non solo il potente esaltatore delle technai, ma anche come colui che aveva trasmesso all’uomo questa techne suprema che gli premetteva di liberarsi dalla divinità. La figura titanesca – nel senso che ormai riveste per noi questo termine, di quello che si rivolta contro la divinità, che trasgredisce il Nomos, mettendo alla portata del fuoco autonomo dell’uomo la terra intera -, dunque, invoca qui la cosmica Dike. E il Numero, che egli canta come il primo dei doni fatti ai mortali, non sarà allora il rythmos di Dike, piuttosto che il numero-quantità del calcolo che apre tutte le vie, che appiana tutti i problemi? Il Logos di Prometeo non sarà allora un astro-logos? Questo numero, questo Logos, sono ora infranti…” [Cacciari ].
L’opera è suddivisa in nove parti, in ciascuna delle quali si impiega un organico differente.
Prologo. Le voci soliste recitano passi della Cosmogoniadi Esiodo, mentre altre voci soliste e il coro cantano brani in prosa tratti da Benjamin, che fungono da commento a Esiodo, a mo’ di tropo medievale.
“Isola prima”. Dialogo tra il trio d’archi e i gruppi orchestrali: il testo è costituito dalla narrazione da parte di prometeo delle proprie gesta e dal racconto di Efesto del castigo inflitto a Prometeo da Zeus.
III. “Isola seconda”. Questa parte si suddivide a sua volta in tre momenti distinti: “Io-Prometeo”, sovrapposizione di parole di Io, figlia di Inachos, e di Prometeo, che profetizza le future sofferenze di Io; “Hoelderlin”, frammento del celebre Schicksalslied del poeta tedesco, cantato dal coro, lo “Stasimo primo”, susseguirsi di frammenti musicali di poche battute, che variano continuamente in senso dinamico e agogico.
IV. Interludio primo. Pur brevissimo, è il momento culminante dell’opera. sul testo del Maestro del gioco di Cacciari, voci soliste e strumenti disegnano un arabesco sempre “ai limiti dell’udibilità o dell’inudibilità”.
V. “Tre voci”. Prevede la sovrapposizione di tre livelli sonori, costituiti il primo da tre voci soliste, il secondo da euphonium, flauto basso, clarinetto basso e vetri, il terzo da un impercettibile sfondo sonoro degli archi; il testo comprende ancora frammenti da Il maestro del gioco.
VI. “Terza, quarta e quinta isola”. I materiali delle tre “isole”, ciascuna caratterizzata da un organico vocale e strumentale differente, vengono sottoposti a processi di frantumazione; il coro esegue una “eco lontana”.
VII. “Tre voci b”. il coro, qui a cappella, intona frammenti di testi di Benjamin, mentre riaffiorano frammenti delle “isole” precedenti.
VIII. Interludio secondo. E’ un brano orchestrale che combina i suoni gravi con quelli trattati elettronicamente delle campane di vetro: sono compresenti otto indicazioni agogiche differenti.
IX. Stasimo secondo. Quest’ultima parte presenta il sottotitolo A sonar e a cantar, che rimanda alla tradizione veneziana dei “cori battenti” praticata da Giovanni e Andrea Grabrieli nel Cinquecento. Il testo in versi di Cacciari indica l’apertura di “molteplici vie” e “molteplici silenzi”; un brano di profondo lirismo, che coinvolge l’intero organico orchestrale.
“’Qui il diavolo danza con me’, scriveva Mahler sulla partitura della Nona” dirà Cacciari in un commento, “danzare con il principio stesso della separazione (con quello che divide, dia-bolus) – questa è forse l’idea che ci ha condotto a immaginare la terza giornata del Prometeo” [Cacciari ]
Conclusioni
Una prima questione che si pone in conclusione riguarda il tratto d’unione delle opere che abbiamo esaminato. Si tratta di una sfida al limite delle possibilità compositive, sia da un punto di vista tecnico sia da un punto di vista simbolico. A voler tener conto di come il titanismo prometeico si traduca nelle scelte orchestrali si potrebbero ricavare parecchi elementi utili. La tragédie lyrique in tre atti di G. Fauré, che porta il titolo di Promethée, per fare un esempio, prevede un organico di circa settecento esecutori in totale: oltre ai solisti, agli attori, al corpo di ballo e ai cori, un’orchestra dalla massiccia presenza di archi, fiati e ben quindici arpe, cui si aggiungono tre bande. Abbiamo volutamente omesso di far cenno al primo grande compositore prometeico della modernità, a Ludwig van Beethoven, perché non è al suo Die Geschoepfe des Prometheus (Le creature di Prometeo), scritto nel 1800-01, che è consegnabile un ruolo nella traiettoria che ci siamo prefissi di seguire. Piuttosto un lungo discorso, che qui non è il caso di affrontare, andrebbe fatto sulla prometeicità in absentia di Beethoven, una cui ultima eco si intravede nella fragorosa titanicità di Liszt (Prometheus, Poema sinfonico No. 5 -1850-56).[2] Siamo qui sul terreno di un Prometeo illuministicamente liberato, cristianamente salvatore dell’umanità.
Una sfida estrema, si diceva, colossale. In Skrjabin, Berg e Nono il pensiero compositivo si misura direttamente con i grandi temi della storia e della filosofia; anzi, fa i conti con gli archetipi della cultura occidentale e attraverso le figure di Prometeo e Pandora, si misura col loro grande manipolatore, con Zeus, Theus, Dio.
La proliferazione del mito allunga lo spettro sinistro di Don Giovanni sulla musica moderna e contemporanea; e allora ci accorgiamo che forse essa ha riconosciuto come sua figura-perno quella del Genio manipolatore al contatto col “limite”, e con essa si è misurata fino all’insensatezza del girare in cerchio; questa figura scaturita dalla vertigine che separa la Liberazione dal Nulla (entro i cui termini forse non vi è che un passo), esito di un tragico tentativo di conciliazione tra natura e cultura, tra sapienza come capacità di ascolto dell’essere del mondo e Ragione come tentativo di rendere umanamente plausibile l’artificio di una liberazione tutta umana. La musica non poteva dirlo che in termini mitici, non argomentativi, ambigui, labirintici, in una recursione di specchi. E tuttavia questo racconto mitico fatto di suoni ha una storia. Essa comincia col Don Giovanni di Mozart e arriva alla Lulu di Berg.
Lulu-Pandora è la vera risposta a Don Giovanni, con sullo sfondo l’abissale peso dell’Olandese volante di Wagner, tragico, vampiristico rovesciamento del tema prometeico. Una storia contrappuntata dalle riflessioni di Schopenauer e Leopardi, Nietzsche, Adorno e Thomas Mann, dove la musica si configura come terreno privilegiato della Melancholia. La malinconia di stare lontani da quello che conta, di non poter raggiungere la luce, né di poter affondare per sempre.
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DISCOGRAFIA
Prometheus – The Myth in Music (Beethoven – Nono – Liszt – Skriabin)
Berliner Philarmoniker – Claudio Abbado
CD Sony
NOTE
[1] La recezione del mito di Prometeo in ambito musicale dispone di una ricca tradizione, che inizia con la comparsa di Prometeo nel Ballet des arts di P. Beauchamps (1685, Parigi). Nel XVIII secolo vennero pubblicati un libretto di I. Zanelli per una cantata in occasione del compleanno delle principesse di Casa d’Este (1728, Modena) e una pantomima con musica di J.A. Fischer (1776, Londra). La figura entra nella musica da ballo del XIX secolo con il valzer di J. Lanner (1837). Escono poi un oratorio di P. Benoit (1867, Anversa), una composizione corale di H. Hofmann (testo di H. Richter, 1892, Lipsia), un’ode sinfonica di J.P. Selmer (1898, Oslo) e una tragédie lyrique in tre atti di G. Fauré (libretto di J. Lorain, A.F. Hérold, 1900, Béziers). Un progetto di opera di R. Leoncavallo (prima del 1919) rimane incompiuto. Proprio nell’anno dell’ascesa al potere di Hitler viene rappresentato un “chorisches Spiel vom Licht”, strettamente legato all’estetica e all’ideologia nazionalsocialiste, opera di K. Bertling e J. Menge con msica di H.A. Mattausch (1933, Lipsia).
Per la storia della musica ebbe grande importanza anche il topos del potente Creatore, per esempio nei balletti di G.-F. Poullain de Saint-Foix (1753, Parigi), di L. van Beethoven (1801, Vienna) e di M. Ohana (1956, Lione), così come nel pezzo orchestrale con pianoforte di A. Skrjabin (1911, Mosca). Trasposero in musica il testo di Goethe J.F. Reichardt (1809), F. Schubert (1819), A.B. Marx (1841), H. Wolf (1889), J. Roentgen (prima del 1932), H. Jelinek (1939) e E. Sehlbach (1943). Nel repertorio schubertiano esiste tra l’altro una cantata su testo di P. Draexler von Carin (1816, probabilmente Vienna). un oratorio su questo aspetto del mito fu composto da A. Koerppen (1955); G. Gutche scrisse il poema sinfonico Epimetheus USA (1969, Detroit).
Soprattutto a partire dalla metà del XIX secolo la figura di Prometeo incatenato è protagonista di una serie di opere che si ispirano principalmente al testo di Eschilo. Vanno menzionati in questo contesto la composizione per soli, coro e orchestra di J.F. Halévy (1849, parigi), le cantate di A. Messager (1877, Parigi), G. Mathias (1883, Parigi), L. Lambert (Prix Rossini, 1885) e C. Chavez (1956), i lavori sinfonici di K. Goldmark (1890, Lipsia) e L. Miguez (1892), i pezzi orchestrali di J. Fitelberg (1929), L. Cortese (1947) e K. Hamilton (1963), gli oratori di F. Wohlfhart (1955, Wiesbaden) e R. Wagner-Régeny (1959, Kassel), le opere di M. Emmanuel (libretto dello stesso compositore ispirato a Eschilo, 1951, Bergamo), J. Hanus (libretto di J. Pokorny ispirato a Eschilo, 1961-63), C. Orff (1968, Stoccarda), L. Nikolov (1974, Ruse) e B. Matuszczak (1981), così come le due composizioni vocali di J.M. Hauer (entrambe 1919). Appaiono in seguito numerose musiche di scena per la tragedia di Eschilo e le sue varie rielaborazioni, tra cui si segnalano quelle di M.E. Bauer (1930), A. Honegger (1946, Parigi), W. Mellers (1947), A. Jolivet (1954), J. Christou 81963, Epidauro) e C. Tautu (1972).
Alcuni lavori fanno riferimento a una liberazione di Prometeo: tra questi una serenata di G.C. Wagenseil (1762, Vienna), l’ouverture e il coro di F. Liszt basati sul Prometeo liberato di J.G. Herder (1850, Weimar) e le cantate di Saint-Saens (testo di R. Cornut il Giovane, 1867, Parigi), e C.H. Parry (testo basato su quello di P.B. Shelley, 1880, Glocester Festival). compongono opere corali nel corso del XX secolo R. Hahn (testo di p. reboux, 1908-1909, Aix-la-Chapelle), G. Bantock (testo basato su quello di P.B. Shelley, 1936, Londra) e H. Brian (testo basato su quello di P.B. Shelley, 1937-1944).
[2]Prometheus di Franz Liszt (1811- 1886) venne eseguito in una prima versione nel 1850 come Ouverture ai Choere zu Herders entfesseltem Prometheus (Cori sul Prometeo liberato di J. G. Herder (Weimar), poi completamente rielaborato nel 1855; in questa versione il lavoro fu pubblicato nel 1856. Scrive Liszt nel “programma”al poema sinfonico: “Nel 1850 a Weimar fu dedicato un monumento a Herder e in quel giorno si consacrò al ricordo di questo poeta-pensatore anche lo spettacolo teatrale. Fra tutte le sue cantate e poesie quasi-drammatiche, fu scelto il Prometeo liberato – una delle opere che meglio traduce ciò che vi era di più puro e generoso nei sentimenti di colui che fu chiamato l’apostolo dell’umanità – cui furono adattati brani di canto, dal momento che quest’opera originariamente era stata destinata alla musica. Oltre alla presente partitura, che servì da ouverture, avevo composto i cori, che mi riservo di raccogliere in un insieme più adatto alle normali esecuzioni in teatro o in concerto, poiché quella volta, per non intervenire sul pensiero e l’opera dell’illustre filosofo, il suo testo fu declamato per intero, benché poco corrispondente alle attuali consuetudini drammatiche.
Il mito di Prometeo è pieno di idee misteriose, di tradizioni vaghe, di speranze tanto prive di corpo concreto quanto vivaci di spirito. Interpretato in vari modi da eruditi e da poetici esegeti di sicurezze negazioni altrettanto fondate che opposte fra loro, esso ha sempre parlato alla fantasia commossa con le segrete concordanze che questo racconto simbolico instaura con i nostri istinti più ostinati, con i nostri dolori più amari, con i nostri più dolci presentimenti. I marmi antichi ci rivelano quanto il mito di Prometeo preoccupasse l’immaginazione inquieta dell’arte greca; il frammento d’Eschilo ci prova che la poesia trovava in esso un profondo soggetto di meditazione. Non abbiamo dovuto scegliere fra le tante interpretazioni accumulatesi attorno a sì grandi momenti, né allestire una nuova variante a questa antica leggenda così legata a segreti e confusi ricordi, a eterne e sempre giovani speranze. Alla musica è sufficiente assimilare i sentimenti che, al di là delle forme di tempo in tempo imposte a questo mito, ne costituiscono l’anima stessa: Audacia, Sofferenza, Resistenza, Salvezza: aspirazione ardita verso i più alti destini cui lo spirito umano può adire, attività creatrice, necessità d’agire… dolori espiatori che abbandonano a un incessante rodimento i nostri organi vitali senza mai distruggerci; dura condanna a restare incatenati alle più aride sponde della nostra natura: gridi d’angoscia e lacrime di sangue… ma inalienabile coscienza di una grandezza nativa, d’una futura liberazione; fede inestinguibile in un liberatore che farà salire il prigioniero tanto a lungo torturato alle regioni sopramondane da cui egli rubò la luminosa scintilla… e infine il compimento dell’opera di misericordia, il gran giorno venuto! Dolore e Gloria! il senso fondamentale di questa favola troppo veritiera, così ridotto, si prestava necessariamente a un’espressione tempestosa, direi folgorante. Il carattere musicale di questo dato è un profondo dolore che trionfa grazie alla perseveranza e all’orgogliosa energia”.
Come si vede, Liszt non prende posizione sulle varie versioni del mito (“pieno d’idee misteriose, di tradizioni vaghe”), quello che a lui interessa è coglierne lo spirito profondo: “Audacia, Sofferenza, Resistenza, Salvezza”, che già disposte in questo modo forniscono un particolare taglio ideologico del mito stesso. Si tratta, sulla base del testo di Herder, di un Prometeo liberato, versione moderna del vuoto lasciato dalla seconda tragedia della trilogia di Eschilo, non di quello incatenato.
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