Antonio De Lisa- Urban Furore

Urban doppio furore
con passo sincopato
Urban doppio dolore
col viso graffiato
Urban doppio calore
con la testa rivoltata
Urban cercatore perso
in un autogrill autostradale
con tre birre, la cameriera
e il tuo universo.


Urban che fai il duro
tra i messicani della stazione
di Milano, mentre si prendono
a bottigliate nel sottopassaggio
della metropolitana.
Urban spaccone e superiore
tra lo spaccio pesante
del parco infangato.
Si vede che sei uscito bene
stamattina, lo spleen l’hai
lasciato sotto la doccia
e non hai nemmeno salutato
chi era nel tuo letto
a dormivegliare dopo una nottata
insana.
Sì, ma ora smettila di asoltare
“Hey Joe” nelle cuffie,
troppa nostalgia ti fa male.


Vedi, fratello, disse Urban
a uno che non lo ascoltava,
con la testa piegata da un lato
e stordito dal cattivo gin
che gli percolava
sulla maglia strappata …
vedi, fratello, il mondo
si sta deglobalizzando
sotto i nostri occhi
a ritmo accelerato,
vedi quanti voli cancellati …
ma tu che ci fai qui,
se non devi andare
da nessuna parte …
nella quiete oppiacea
del tuo gin
non t’importa di tutta questa
confusione da mondo scoppiato.


Al mercato di Camden Town
ho trovato un gilettino
che mi sta un amore,
da solista rock,
mi serve per stanotte,
capodanno al Koko
qui a due passi,
debitamente rifornito
di compagnia e sballo…
questa è la vera Londra …
no, un momento,
togli il film, questo era
due anni fa
oggi a Camden Town
è deserto di anime
orrore pandemico
chiusura totale.


Ma si può passare
la vigilia di Natale
in un aeroporto?
Eppure, sono qui,
accanto a una famiglia
di cui non riconosco la lingua,
per me potrebbe essere
anche la Sacra famiglia,
si vede dal sorriso così
umano della Madre che,
non so perché, maledizione!,
mi commuove fino alle lacrime.
Ma che mi succede?
Non mi riconosco,
fino a sentire una punta
di rimorso in un fianco
perché sono così
maledettamente
lontano.
Lontano da tutto.


Sonnecchio con una qualche
canzoncina nelle orecchie,
con una piede addormentato
e un panino sbonconcellato.
Forse qualcuno mi ha
becchettato su una spalla
per dirmi qualcosa
ma poi ha rinunciato, non so.
L’ho avvertito appena,
forse mi è caduto il libro,
tra le cose di un tizio con la barba
che mi sta a fianco,
impassibile come una statua,
ma anche lui beve di tanto in tanto.
Non si può fare altro
nella solitudine
del mondo che ci circonda
tutto illuminato.


Il barman indica tutto
quello che chiedo
con fare interrogativo
per cercare di capire
quello che non so neanche io:
cosa voglio mangiare,
voglio dire.
Indica i cibi nelle vetrine,
come se questo mi potesse
bastare.
E ogni mio cenno di diniego
accenna anche lui con la testa:
ha lo stesso mio obiettivo,
far passare le ore,
consumare la notte,
senza sapere
quello che ci attende.


L’ho portata con me
ma non l’ho mai suonata
se ne sta lì buona
nella custodia senza dare
fastidio, e pure scordata.
Segue i miei umori
oscillanti, ondivaghi
e qualche volta ossessionanti.
Non ci posso fare niente,
se sono sintonizzato
con i lutti di questo mondo,
ci sarà tempo per cantare,
qualcuno dice che bisogna pregare,
io mi accontento di stare
in un cantuccio senza fiatare.


Amo i paesaggi innevati,
dove si scorgono appena
figure umane,
solo qualche raro albero,
forse la sagoma di un cane.
Amo l’odore del freddo
e del gelo, il colore
pallido del cielo.
Sotto tutto quel bianco
crescono i semi,
gemono le ore
che annunciano il futuro.


Non so cosa pensare
delle strade deserte,
dei passanti che volgono
lo sguardo da un’altra parte.
Non so cosa pensare
di tutto questo vuoto
che avvolge le giornate
come una bambagia
ottundente.
Sarebbe meglio
andare,
non in quarantena,
ma in letargo,
per svegliarsi
in un domani liberato,
con tutte le vecchie, care
nevrosi, tutti i momenti
accidiosi, tutte le cose
che rendono nervosi,
un qualsiasi straccio
per pensare.


Se la devi fare, neve,
falla!
Fammi tornare
indietro di quarant’anni,
quando si usciva
mentre cominciava
a nevicare, per sentire
l’ebbrezza della vita.
Buttane tanta, di neve,
fino a seppellirmi
di bianco.
Anche al mio cane
piaceva rotolarsi in quella
pelliccia,
con me che lo rincorrevo
a perdifiato,
fino a stordirmi di entusiasmo,
fino a perdere la sensazione
del dolore e dell’affanno.


Molti aggiungeranno un anno sul calendario
della loro vita,
io vado per sottrazione;
io tolgo invece di mettere,
scavo invecedi ammucchiare.
Ovviamente lo so solo io,
gli altri scorgono
la spietata metamorfosi
del tuo corpo,
giorno dopo giorno,
ora dopo ora.
Ma anche questo è un modo
per illudersi,
un modo per amare
quella cosa stupida e insensata
che è la vita.


La migliore cura
quando intorno a te si fa buio
in tuti i sensi é sfogliare
vecchie cartine geografiche
spiegazzate, chiedersi dove
si trova l’Armenia e quante
possibilità hai di andarci;
dov’è Samarcanda e perché
è così bella in foto;
immaginare mondi lontani,
bruciare dalla voglia
di morire di caldo o di freddo,
in deserti marocchini
o steppe siberiane;
innamorarsi del primo volto
che incontri in un vecchio treno
che non sai nemmeno
dove sta andando;
sciogliersi in un cenno
di sorriso e di consenso.


Mi viene da piangere
se penso a quello che è stato,
al buio di giorni insensati
chiusi in casa a deprimersi,
chiusi in casa ad affliggersi
ma buona educazione vuole
che bisogna nascondere
le lacrime
sotto un lembo del mantello,
fare un sorriso di buon auspicio,
dire che tutto finirà.
Questo vuole la buona educazione
e anche un certo spirito cristiano
ma io sono maleducato
e anche ateo.
Io piango disperatamente
per quelli che non ci sono più
e per la nostra misera condizione
di viandanti con un incerto domani …
Sì, disperatamente …


Di solito è la musica
la consolazione, forse
qualche poesia,
un bicchiere di vino,
la chiacchierata con un amico,
il sorriso di un’ amica,
cose così, senza grandi
significati economici
o trascendentali,
senza metafisica o guadagno,
cose leggere
per affrontare un nuovo
giorno, alzare la testa
e lo sguardo,
illuminarsi di un nuovo
proposito, accettare
il destino.


Si dice sentimento blues
e si dovrebbe capire
che non puoi restare
né partire.
Stai qui.
Alloggiato nello spazio
ristretto dei tuoi desideri
insespressi.
O forse altrove.
Senza poter distinguere.
Senza poter affermare
né negare.
Solo. Qui.


La tromba di Ibrahim Maalouf
mi ricorda quella volta
che arrivammo dal Wadi Rum
morti di stanchezza
dopo aver riparato una ruota
della jeep.
Veramente stanchi,
ai limiti.
Un locale ci accolse
con una musica
a bassissimo volume,
e su un cuscino, rilassato,
ho conosciuto
veramente cos’è il benessere,
la contentezza
di stare al mondo.
La musica di Ibrahim Maalouf
ha il sapore di un the alla menta,
con qualche altra cosa dentro,
dolce e rude, rude e dolce,
come certa musica araba
mischiata a qualche altra cosa dentro.
Dolce e rude come la musica,
come la poesia.


Beirut dei miei sogni,
mi sfuggi appena
tento di raggiungerti,
un’esplosione nel porto,
la quarantena,
la cisi economica.
Leggo avidamente
tutte le notizie
che ti riguardano,
sognando di indugiare
lentamente sul tuo lungomare,
rievocando antiche gesta fenicie,
tumulti a Biblo, avventure
d’amore ai confini siriani,
melodiose salmodie.
Ma la foto oggi è in bianco e nero,
ci hanno tolto anche
il sollievo di un altrove.


Poeti più grandi
cominciavano il delirio
con l’assenzio o con l’oppio
per vincere il non-senso
di questo mondo tragico
e ridicolo,
uscire dal tunnel
delle parole vuote
e dei buoni sentimenti …
ma a pensarci bene
lo si può fare
anche con un fiasco di rosso
potente,
mediterraneo,
còrso o sardo,
o magari lucano …
l’importante è non sentire
più il frastuono
delle cazzate,
il vocio insensato e bestiale
dei discorsi perbene …


L’avete mai visto
il cantante che protende
il collo come a voler
amplificare il suo urlo?
L’avete mai visto da vicino,
con il sudore e la tensione
muscolare?
In quell’urlo mi rannicchio,
cerco scampo
dal vuoto intorno,
anche se non capisco le parole,
so di poter volare
per un attimo
senza render conto,
scantonare dalle vie consuete,
deragliare,
lasciarsi andare…
“Un altro drink, amico?”
“Vai, e uno anche per te!…”


Ci provano, a ridurre
la musica, a sussurro,
a fenomeno da salotto,
ci provano a ridurre
dioniso a maestro da camera,
ci provano a farlo diventare
un maggiordomo
di serate annoiate,
ci provano perché non sanno
cos’è la musica,
il mistero che nasconde,
la forza se esplode
il fuoco del vulcano,
il deragliamento
di tutti i sensi ….


C’è un volto che ci interroga
da una foto scattata di fretta,
quello di una bambina siriana
con i suoi occhioni profondi.
Viene da una guerra maledetta.
Al massimo le forniremo
gli elementi minimi
di un’accoglienza,
per non farci sentire in colpa.
Quella bambina arriva
da una grande civiltà implosa.
Non ci sta chiedendo nulla,
ci guarda soltanto.
Non sappiamo cosa sia
una guerra,
la vediamo solo in televisione,
lei l’ha subita dalla nascita
tra le macerie della sua terra.


Accarezzare la carne della sua carne
straziata dalla violenza, cullare
il corpo senza vita di un figlio straziato
è il primo passo all’inferno
per una madre.
Non ci può essere nulla, niente
che riscatti quella sofferenza.
Con quel figlio
muore anche la giustizia.
E’ una condanna intrisa di veleno.
Li trattiamo come nemici
di un esercito in guerra.
Ci stiamo esercitando
in un odio programmato
che provocherà altri lutti.
Temiamo la violenza
che starebbero covando
i migranti e siamo convinti
delle nostre convinzioni.
Ci siamo sostituiti a Dio,
siamo diventati giudici supremi,
senza processo,
come un’esecuzione.
Molti di loro sono solo bambini.
Il pianto delle madri
non potrà lenire quel lamento,
sanare quell’immenso dolore.


Questo era il nostro mare,
l’acqua benigna
che ha nutrito la nostra
infanzia
mediterranea.
Ora non si sa più di chi sia,
a chi appartenga questo mare
trasformato
in un regno dei morti. Fanno
impressione e orrore
le dichiarazioni sciacalle
e la retorica
della violenza
della maggior parte dei politici,
i titoli bastardi dei giornali,
il sapore amaro dei reportage
sulla “pioggia di fuoco”
degli aerei francesi su Raqqa.
Fanno orrore,
appena un po’ meno
di quei morti viventi
che hanno sparato a Parigi.
Ma solo un po’.


Se trecentomila vi sembran poco
considerate che sono minori
e se per i capi è altissima la posta,
per i bambini soldato
sembra un gioco. Oggi
un bambino di 10 anni può usare
un AK-47 come un adulto,
visto che è un’arma
automatica e leggera
e come un adulto sparare
e ammazzare.
Più docili all’indottrinamento,
i ragazzi non chiedono compenso
e più facilmente di un adulto
scivolano in un gioco violento.
Affrontano il pericolo
con incoscienza
totale, attraversando campi minati
o intrufolandosi nei territori nemici
con la spavalderia dell’adolescenza.
Ma gioco non è,
se e quando tornano a casa,
malati, depressi, imbottiti di farmaci,
con ricordi atroci e micidiali incubi.
Dell’infanzia hanno fatto tabula rasa.

Antonio De Lisa

Tutti i diritti riservati



Categorie:C05- POESIA / Urban Furore

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