Il concetto di maschera (o il suo mistero) nell’Occidente tardo moderno ha ormai diluito fino a perdere del tutto
le originarie connotazioni antropologiche. Il mascherarsi in occasioni festive, in generale, decisamente ha assunto valenze puramente ludiche e, inteso in senso generale, ha finito per richiamare un atteggiamento negativo, di norma collegato all’inganno, al nascondimento dietro un’apparenza altra, alla volontà di fingere per non svelare la propria identità e autenticità. Per contro, se si sceglie di interrogare la maschera nelle sue antiche e originarie funzioni, è possibile riconoscerne aspetti certo ambigui e inquietanti, tuttavia sempre connessi alla sfera spirituale del sacro. Ad eccezione delle grandi religioni di ceppo abramitico, si può verificare come la massima parte delle religioni extraoccidentali abbia sistematicamente riconosciuto nella maschera l’oggetto per eccellenza del manifestarsi del divino (o dell’inferico, comunque oggetto di culto), sia pure in forme anche sensibilmente differenziate.
La stessa maschera teatrale, ben lungi dall’essere un’invenzione artistica in proiezione spettacolare, tradisce sistematicamente le origini cultuali e/o rituali, come dimostrano i casi del teatro attico (inizialmente e per tutto il V secolo a.c. parte integrante delle celebrazioni dedicate a Dioniso), dei teatri orientali (si pensi agli spettacoli dei balinesi o all’indiano Katakali), persino della nostra Commedia dell’Arte, le cui maschere più celebri, a partire da quelle del mitico Arlecchino, mostrano funzioni e attributi rinvianti a personaggi e tradizioni magico-religiose di ascendenza medievale e folclorica.

Gli uccelli. Cratere a campana. V secolo a. C.
Paul Getty Museum, Malibu.

Katakhali (India)

Teatro-danza balinese

La famiglia di Arlecchino, in T. Martinelli, Compositions de Rhétorique,1601, Lyon (Bibliotèque Nationale, Paris).
Lo statuto segnico della maschera
L’alterità (e la conseguente indecifrabilità) della maschera per la cultura occidentale colta si spiega non solo con la fatale evaporazione del “magico” e del “superstizioso” nell’epoca della scienza e della tecnica, ma anche per l’incompatibilità della moderna concezione del segno con funzioni espressivo-comunicative per contro costitutive di altre civiltà e culture. Se per la nostra cultura razionalistica un “segno” è un aliquid che sta pro aliquo, vale a dire qualcosa (un significante) che pur riferendosi a qualcos’altro non ne condivide la natura e la sostanza (la parola o l’immagine significano ma non contengono la cosa cui si riferiscono), per molte altre culture storiche il “segno” può essere il medium che consente al referente di manifestarsi; in proposito lo storico delle religioni Mircea Eliade ha proposto il termine ierofania (dal greco hieros: sacro e phaino : mi manifesto) come tratto costitutivo dell’originario “uomo religioso”, che attraverso i segni produce la possibilità di richiamare la presenza del divino nel mondo, e conseguentemente la sua azione reale. Da questo punto di vista il rito è una sorta di macrosegno che, ben lungi dal limitarsi a rappresentare, pretende di essere una vera e propria azione: un rito di fertilità deve appunto propiziare la fertilità, così come un rito di guarigione deve produrre la guarigione.
E’ in questo quadro concettuale che è necessario ripensare la maschera rituale come segno efficace: essa, dice Kerényi, produce «una relazione tra l’uomo che la porta e l’essere che essa rappresenta» (Miti e misteri, p. 444) stabilendo con ciò una trasformazione unificatrice: il divino permea l’umano, che di conseguenza – e questo è l’aspetto più sconvolgente – ha la facoltà, tramite il segno-maschera, di fare letteralmente esperienza del sacro, di un sacro che lo “abita” e da cui è letteralmente posseduto. Ciò valeva per la maschera greca, di cui quella di Dioniso rappresenta indubbiamente l’emblema più significativo, ma anche per quella medioevale e del connesso folclore, a partire dall’impiego nelle feste d’inizio d’anno a propiziazione della fertilità agraria: qui le maschere non rappresentavano i morti che ritornano, ma, per usare un’efficace espressione di Vernant , li “presentificavano” in tutta la loro forza originaria, caotica e rigenerante. Una presenza che, nel delirio carnevalesco, poteva produrre tutti i suoi effetti proprio grazie allo stato di possessione degli individui mascherati (Vernant, 2001).

Maschera di Dioniso. Lekytos, inizio V secolo a. C. Museo Archeologico Regionale di Palermo.

La fête des foux. Incisione di Bruegel il Vecchio, 1561, British Museum, London.
Maschere apotropaiche
La maschera non necessariamente deve essere indossata da un soggetto: è il caso della maschera apotropaica, che tuttavia continua ad essere un segno permeato dalla presenza agente di forze divine, supere o infere: è il caso della maschera greca di Gorgo, sempre raffigurata di fronte, che incanta e pietrifica chi osa anche soltanto affrontarla con lo sguardo; ed è il caso della maschera apotropaica (greco apotrépo, allontano), dall’aspetto talvolta grottesco, talvolta ghignante, che ha la facoltà di tenere lontani nemici ed intrusi, e che può essere posta a protezione delle stalle, dei campi o delle abitazioni, come possiamo singolarmente verificare nell’alto bergamasco – terra di Zanni e di maschere dell’Arte – dove in un affresco dipinto sopra la scala di ingresso della cosiddetta “casa di Arlecchino” è raffigurato un irsuto “uomo selvaggio” armato del classico nodoso randello con la seguente iscrizione posta sul cartiglio: “Chi non e’ de chortesia, non intragi in chasa mia, se ge venes un poltron, ce daro’ col mio baston”.

Testa di Gorgone. Coppa a figure nere, VI secolo a.C., Musée du Louvre, Paris.

Selvaggio nella casa di Arlecchino.
Oneta a San Giovanni Bianco (Bergamo).
Follia e zoomorfismi
Entrare nel mistero della maschera, farsi servitore di Dioniso, per il greco equivaleva ad abbandonare ogni contegno, lasciarsi riscaldare dal vino, mettersi in comunicazione con un dio polimorfo, maestro di tutti i travestimenti, dolcissimo e spietato, maschile e femminile, giovane e vecchio, umano e animalesco. La maschera ellenica poteva avere attributi del tutto umani, come nel caso molto specifico e circoscritto delle maschere degli attori-eroi che nella tragedia recitavano sulla skené; ma spesso i danzatori nel coro (rappresentanti della comunità in festa) mostravano chiari attributi animali, come nel classico caso dei seguaci di Dioniso per eccellenza, quei satiri di ascendenza ditirambica dotati di coda, zoccoli, e spesso, a far segno alla fertilità maschile, membri in stato di perenne erezione. I tratti dell’animalità e della follia ritornano in chiara connessione anche nelle maschere carnevalesche della tradizione carnevalesca europea, a far segno (efficace) al fatto che la fertilità propiziata attraverso il rito non può che implicare un passo indietro da parte dell’uomo e dei suoi tratti differenzianti nei confronti del resto della natura, a partire da una pratica di liberazione dell’energia cosmica in tutte le sue componenti: umane, ma anche animali e (come dimostrano molti documenti iconografici) vegetali. La figura del Selvaggio, in questa prospettiva, risulta paradigmatica. Nelle sue diverse declinazioni, la maschera del Selvaggio mostra i tratti di un’autentica ibridazione fra l’umano e il non umano, che tuttavia, per la funzione rigeneratrice che produce, acquisisce necessariamente la potenza originaria e primitiva della vita stessa: e nell’esprimere durante l’azione specifica delle festività carnevalesche questa ritrovata alleanza, l’uomo che indossa la maschera si fa letteralmente “selvaggio”, libera il corpo dall’azione cosciente della mente, e con esso il senso orgiastico di una sfrenata condivisione collettiva di ogni sorta di piacere: il cibo, la danza, il vino, il sesso. Il sensibile si insinua fino a superare e a cancellare l’intelligibile, per trovare la sue espressione estrema nella dimensione esperenziale (e in un certo senso “bestiale”) della follia, di quell’inquietante ”insanire” che persino gli antichi romani avevano dovuto in qualche modo legittimare, sia pure e con molte preoccupazioni, “semel in anno”. Tanto che la “stultitia” carnevalesca, così biasimata dalla chiesa medievale che vi riconosceva l’azione corruttrice del diabolico, per secoli e secoli di tradizione popolare e folclorica fu vissuta dalle masse degli “aratores”, secondo un’espressione di Gaignebet e di Camporesi, come un’autentica “religio”, come espressione della potenza esaltante ed irrazionale del sacro. Non deve pertanto stupire che nel Medioevo, legittimato persino nelle corti più blasonate, il buffone, con i suoi attributi animali (il coquelochon con le orecchie d’asino, piumaggi o creste di gallo, spesso deformità fisiche reali o simulate), avesse uno statuto riconosciuto e, a suo modo, riverito e ricercato: la follia, in ultima analisi, come una sorta di capacità di divinazione, come possibilità di vedere dove l’umana ragione non può arrivare.
Entrare nel mistero della maschera, per le culture che l’hanno voluta sperimentare, equivaleva a riconnettersi, nell’oblio della coscienza individuale, al mondo dei morti, all’origine, in ultima istanza al ciclo vitalistico della natura, che del resto mai ha cessato di allignare nelle fibre del corpo, della physis dei suoi adepti; dire di sì a Dioniso o al Carnevale, al loro azzardo e al loro invito seducente e lussurioso, dovette dunque significare,contemporaneamente, perdersi e ritrovarsi, fino a trasformarsi, morire e rifiorire.

Dioniso con Satiro e Menade. VI secolo a. C.. Museo Nazionale, Atene.

Selvaggio. Particolare di scanno, 1509, Cattedrale Saint-Tugdual,Tréguier.

Allegoria della follia. Q. Metsys, 1510 ca. Collezione privata.
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Categorie:K01- Antropologia della Maschera - Anthropology of Masks
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