Antonio De Lisa – Rime sparse

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Antonio De Lisa – Un secondo orizzonte

(Poesie 2011-17)


ANTONIO DE LISA

UN SECONDO ORIZZONTE

 I – LA PRIMA DELLE PARTI

(VOLGE AL NERO)

Io ti chiamo Poesia,
amante e infine sposa.
Un trattato di metafisica
in sedici versi. Un viaggio

nell’infinito di sola andata,
senza ritorno.
Dopo millenni
fresca come una rosa.

INSOMNIA

Solo gli oggetti sono nitidi e vividi
ai riflessi di luci trasognate
nella dolce tragedia di nottate
abbandonate dal sonno.

L’inizio è duro, quando sembra
che tu solo stia a vegliare
in un mondo appagato
che se di uno sguardo ti ha degnato
lo ha fatto per cortese abitudine
prima di volgersi da un altro lato.

Senti il duro peso dell’ingiustizia
come un’offesa inferta ai tuoi desideri
ma è quando anch’essi ti abbandonano
che lentamente la notte si svela
– notte che non è il rovescio del giorno
ma la netta antitesi, la negazione.

Spazio lascivamente improduttivo
in cui danzano fantasmi dimenticati
lontane erranze
brandelli di addii.

L’IMPASSIBILE NOTTE

Nel deserto di ghiaccio
scricchiolano lusinghe
e gemiti; cristalline
escrescenze lunari
si affilano nelle carni
appuntite e sonore ma calme.

L’impassibile notte
cela lo sguardo, ferma
i gelidi passi
nello stupore incantato
che muta con lo sguardo.
Il cielo non dà segnali.

 SOSPENSIONE

Mi godo la sospensione
di un’ora senza minuti
nel non-tempo
di un mondo parallelo.

Un’apnea dei pensieri
dove non fa freddo né caldo
dove non si è tristi
né allegri.

E latita la dannazione
dei desideri.

I colori hanno un’apparenza
svagata e insincera
nella zona di confine
tra il giorno e la sera
e i suoni tendono al grave
ma senza intonazione
per forza naturale.

E’ la lenta scansione
dello zero-time.

La quiete dell’equilibrio
il circuito chiuso dell’oblio
il campo delimitato dell’addio.

PULSAZIONI SINCOPATE

Ti dicono una parola
e diventa un boato, i sussurri
più tenui vorticano di decibel.

Il ritmo lento dell’attesa
scandisce pulsazioni sincopate
lì, nella parte sinistra della testa.
E’ l’ostinata nevralgia
che pullula di eventi insospettati.

Intanto il nome: nevralgia evoca
un tappeto di nervi in fiamme
un mare di fiammelle
che guizzano caotiche ma a tempo.

Così il poeta immagina la scena
illudendosi di esorcizzarne
l’oscura, elettrica fiammazione
mentre i medici parlano di freddo.

Ma questa è opera di magia
magia di rito vespertino:
tutti i giorni alla stessa ora
come un orologiaio indispettito.

Il ritmo lento dell’attesa
scandisce pulsazioni
sincopate, lì, nella parte
sinistra della testa.

IL PAESE DELLE OMBRE

Quando sei su nel paese delle ombre
la sera ce l’hai già dentro e ti avvolge
con lievi fruscii e silenzi dorati:
il sontuoso preludio della notte
è avvolto in una nuvola di echi
come uno sciame che vibra ai tuoi passi
e scuote lo sciame dei tuoi pensieri
dalla loro distratta fissità
sconvolgendone e mischiando le orme.
E’ la metamorfosi delle ombre.

STRIATURA

Quel cruccio che ti viene
improvviso è come
una striatura di bianco
in un cielo dalla virtuosistica

nettezza; una stonatura
a bassa voce, ma che pulsa
persistente, una ferita nel cielo,
tra vampate di caldo

stordente. Indeciso
se prestarvi ascolto
o immergersi nelle calde
acque dell’abbandono

provi l’uno e l’altro,
ma il ronzio rimane
come un flutto ribelle
alla stasi delle ore.

Il caldo si comporta
con i pensieri e le parole
come con i suoni.
Velocizza le emozioni.

AMICI LONTANI

Gli amici vicini li guardi in occhi
che non sempre sorridono.
Quelli lontani non li vedi, li senti.
Immagini le loro parole,

ti dipingi la scena, ti figuri volti e gesti.
Non percepisci il loro timbro di voce
ma li senti respirare dai loro gusti:
un verso, un pensiero, una foto

di un qualche loro sorridente mattino.
Qualche volta vorrei esserci anch’io
laggiù tra il cane
e l’inferriata del giardino.

LA GRANDE RETE

La webcam come  uno specchio
e noi impigliati nella maestosa rete
esploriamo la quarta dimensione
dove l’apparenza si mischia al vero

in mille posizioni.
La grande rete si tesse da sola
sembra un gioco e scatena rivolte;
la tenebrosa rete acceca e salva:

gestisce relazioni, accelera la storia
sfuma la distinzione tra il sublime
e il banale ma non ce ne accorgiamo.
Basta cliccare per farsi evidenti.

Leniamo le ferite, ordiamo tradimenti.
La webcam specchio di uno specchio.
Simbiosi inquietante
(oltre che comoda e allettante)-

parli con un interlocutore
al di là dell’oceano
ma è come se stessi
recitando un monologo

di Shakespeare davanti
allo specchio del bagno
mentre ti fai la barba. E’come
entrare nell’abisso in pantofole.

 PARLARE O ESSERE PARLATO

Ero entrato qui per parlare
col mondo, ma ora sono qui
“parlato” dal mondo.
La notte t’inghiotte.

Cala magra
sapida traente allegria
sbilancia scioltezza canalizzata.
Colpisci l’attenzione di qualcuno?

Non ti mollerà più.
Ne diventerai l’ossessione.
Nosferatu al confronto
Era un dilettante.

Ti intrometti
nel mondo che si intromette.
Musica a palla.
Movida Blog. Chattaggio selvaggio.

E occhio gonfio la mattina.
La significazione scorta
nell’orizzonte secondo
soggiacente

non è meno coerente di
quella che si definisce
nell’orizzonte primo
immediatamente

percepibile.
La conversazione chat.
Intenzione
di inesprimibile.

IL CENTRO DELLA MENTE

Un po’ li invidio gli indifferenti
non necessariamente rozzi
talvolta anche molto colti e sinceri:
ma indifferenti.

La storia scorre sotto le dita,
tutt’al più un’occhiata distratta
al telegiornale della sera.
Con questo non voglio insinuare.

Solo che il mondo in fiamme
e Wall Street asserragliata
dagli occupanti si situano con spontanea
ferocia al centro della mente.

NEL FANGO DI UNA TENDA INDIGNATA E ALLAGATA

Nel fango di una tenda indignata
e allagata a Piazza Santa Croce
in Gerusalemme una fanciulla
raccoglie in un diluvio di fulmini

le poche cose che le sono rimaste
e con esse gli ultimi brandelli
della propria dignità. Lo fa con la stessa
metodica malinconia dei suoi bisnonni

in trincea, dei suoi nonni resistenti,
cittadina di un paese, di uno stato,
di una nazione che paga il suo contributo
di sangue a rate al destino

per sentirsi viva, per non buttarsi via.
Fanciulla fragile e testimone
di una Rivoluzione democratica
partita come una marea e ridotta

a un rigagnolo di speranze soffocate.
Protagonista innamorata,
non conosce i giochi dei Big players,
dei Grandi giocatori delle banche

e della finanza che hanno
svuotato di senso la democrazia
ma li odia con lo stesso odio
di trecentomila pacifici indignati

che più di un pugno si sono presi
dai cultori della guerra per bande,
dagli esaltatori del gesto “eroico”
che incendia e stordisce (oltre

che da infiltrati e provocatori di ogni
risma). Entrambi – tranne questi ultimi-
testimoni di un disagio
ma non con la stessa coerenza:

gli uni nel fango, gli altri protetti
da chi nega categorie che loro stessi
si attribuiscono. Non basta
distribuire maalox zuccherati

tra i gas urticanti della polizia.
Ha fatto respirare, ma non ha bloccato
il rigurgito del passato.
Quella fanciulla fradicia e infangata,

custodita nel corteo dagli ultimi
spezzoni della classe operaia,
che scompare non – come voleva
Marx- per farsi Stato,

ma inghiottita dalla disoccupazione,
è l’ultima testimone
della Volontà generale.
Col rischio concreto di farsi massacrare.

IL DIO DELL’UNO PER CENTO

Il Dio dell’uno per cento
in un mondo insaziato
e vagamente insensato
colpisce e si nasconde

in paradisi immanenti
e più prosaicamente fiscali.
Ma i più anticapitalisti son diventati
i redattori dei giornali di destra.

Con una faccia di bronzo
gridano alla dittatura del mercato
e alla calata di brache dei politici
ai banchieri col sigaro e il cilindro.

Bertolt Brecht a loro confronto
era un moderato di centrosinistra
e anche un tantino stronzo.
Noi li conoscevamo come neo-liberisti

alle vongole, reaganiani de noantri,
apologeti ad horas dello smantellamento
dello stato sociale.
Tra spread alle stelle e minacce

di default la contabilità esistenziale
è come un’inflazione di parole
mentre la cronaca ci scuote
e noi ci tocchiamo il portafoglio.

C’è pure chi ci ha guadagnato oggi:
il denaro è pura astrazione.
Il peggio è per chi ha ancora
qualche valore, mangiato dall’inflazione.

Qualcuno ha ordinato
per caso che si passi
da quelli economici
a nuovi sacrifici umani?

BANDIERA

In un nubifragio apocalittico
da giudizio divino
-tra incerate e divise inzuppate-
la banda dei bersaglieri

in piazza Venezia a Roma
celebra l’anniversario
dell’armistizio con gli austriaci
suonando e cantando

canzoni patriottiche
con le tre armi schierate
al gran completo
in un mesto sfolgorio

di glorie lontane
“Ma cosa vuoi festeggiare,
povera Italia!”, mormora,
non il Piave, ma il figlio

di un reduce del fronte
con la sua povera medaglia,
“Siamo un popolo bambino,
dal Tevere al Ticino”.

IL SOFFIO DELLA VITA

Inutile chiedersi cosa sia, in
fondo, la medicina. La medicina d’og-
gi. Mio padre con i suoi metodi anti-
quati ti auscultava con lo stetoscopio,
tamburellava un dito sull’altro
per controllare la risonanza
degli organi interni, appoggiava
l’orecchio alla schiena e al cuore
per ascoltare il soffio della vita;
un modo accogliente per l’entrata
in un mondo terribilmente sacro:
il corpo, la malattia, la guarigione.
Questi medici che sto conoscendo
si limitano a toccarti con una
specie di mouse pieno di gel
per mandare segnali a una macchina.
Quei gesti parlavano la lingua che
il corpo si attende, nel suo urlo
di dolore e di speranza, esorcizzando
la paura del paziente di non uscirne più.
Questi, della piena efficienza del guarire.
Ma quelli bravi si riconoscono subito,
ieri come oggi, per i quali le macchine
sono solo strumenti. Esculapio non è morto.
Non si è spento il soffio della vita.

LE GIOVANI PARCHE

Il gioco crudele delle giovani Parche
sembra indistinguibile dal caso:
tirano a sorte per decidere
chi deve vivere o morire?
O seguono un imprescruta-
bile disegno chiamato “destino”?
Non mi può rispondere colui
a cui hanno appena applicato due by-pass.
E’ stato colto da un infarto su un’auto-
strada di grande traffico,
mentre guidava un camion.
Peggio di così non gli poteva an-
dare, ma si è salvato.
E’ più giovane di me, ma fa una vita
dura, massacrante. Sono contento
che le giovani Parche gli abbiano
regalato un benevolo sorriso.

DIAGNOSI

La diagnosi esatta, che una volta
era un vanto anche per sempli-
ci medici condotti,
come lo era mio padre,

ora sembra basarsi su una nu-
vola di probabilità quantica:
si è rotto un muscolo, ma ti
si spalanca davanti il cimitero.

Anche il mugugno refertoria-
le scribacchiato su un pezzetto
di carta intestata annuncia di-
sastri di cui ignori il significato.

Sembra alludere a un’angina,
parola terribile a sentirla pro-
nunciare, come l’inizio di periglio-
se avventure e odissee ospedaliere.

E’ qualcosa che ha a che fare
con arterie  profonde,
un tumulto cardio-vascolare,
qualcosa che si ottura,

con un’incombente minaccia per
l’organismo e conseguenze nefaste.
Ma non ci sono i sintomi: il sudore,
il vomito; il dolore sì, però.

Mi produco in una spericolata
semeiotica dell’infarto e
delle sue evidenze, ma si sa che
in medicina non c’è mai la parola fine.

VIAGGIATORI

Dopo una vita di lavoro
finiscono in un reparto d’ospedale.
Non dico di me, in fondo
mi sono divertito.
Parlo di gente che ha cominciato
a lavorare quando io andavo a ballare.
Ci siamo dati appuntamento
in questo particolare momento.
Mi trovo bene con i camionisti
con cui condivido le luci notturne,
la razione di pillole
e il cicaleccio con le infermiere.
In fondo siamo tutti viaggiatori.
Il bagno in perfetto ordine
sembra la toilette
di un Autogrill autostradale.

SANGUE ILLUMINATO

Una triplice convulsione
mi conduce dalla sala d’attesa
nelle volute di un mondo do-
ve le dimensioni del corpo

sono materiate di soli nomi
e di circostanze aggravanti:
coaguli, enzimi positivi,
blocco di Branca, infezioni.

Sono introdotto all’eco-doppler vasco-
lare, una vera macchina parlante, un
congegno super sofisticato che ti
esplora il sistema sanguigno a colori

con lucine rosse e blu che si accen-
dono quando il bravo medico ti preme
vene e arterie. Comincio a preoccuparmi
quando non si accende qualche luce.

Nelle mie astrazioni intellettuali
il sangue entra come una metafora.
In questo caso, invece, le tracce
diventano scie di sangue illuminato.

Ma lo specialista mi assicura
che va tutto bene, c’è solo
qualche arteria bloccata, ma pic-
cola. Solo una feritina piccolina.

Nessun segno di danni maggiori.
Alzo gli occhi al cielo,
anche se sono steso in mutande
sul lettino. Non devo sembrare

un granché. Qui non ci sono meta-
fore. Il monitor descrive i percorsi
del sangue ed è anche amplificato:
diastole e sistole come sfiati di balene.

In fondo, è solo sangue,
e non lo devo neanche vedere dal vi-
vo, ne seguo solo le giravolte
ma perché mi viene da vomitare?

Gli occhi che avevo alzato al cielo
si abbassano nel reparto intensivo
su petti traforati di persone
con molte arterie bloccate e cieche.

Il cuore è la prima vittima del ritmo
forsennato con cui conduciamo la vi-
ta. Non si ha mai tempo per niente,
non c’è mai sosta, è tutto uno scappar via.

CENERE

Il caffé è spasmogeno
e le sigarette tossiche.
Va bene, concedo.
Ma per chi si reggeva
su questi due pilastri
è come pretendere
di muovere la macchina
senza ruote.
Quella che resta è una carcassa
che si aggira come un fantasma
nicotinico dipendente in astinenza
caffeina dipendente arenato.
Una cosa alla volta:
non dovevate vietarmi
in un colpo solo
sigarette e caffé.
M’avete ridato la vita,
ma tolta la voglia.

PRIMI PASSI

A comprare i giornali
ci vado da solo e presto,
cammino come uno zombie,
auscultandomi dall’interno.
I primi passi sull’asfalto
raccontano la fragilità
e insieme la resistenza
del corpo umano: aperto
a imprevedibili insulti
ma anche capace di reagire.
Però, bisogna sempre rico-
minciare?
Dalla vita activa sprofondare
nell’inerzia, a periodi obbli-
gati?
Quale dio
hai offeso con le tue azioni?
O forse ci sono solo ripartenze
nella vita? Si comincia o ricomincia
e non si arriva mai?

O DI QUA O DI LA’

C’è un certo punto in cui decidi:
o di qua o di là,
o ti converti definitivamente
o fai il salto nel nulla.
Lo si vede in corsia, nei reparti
a rischio, quando un diacono
porta l’ostia della comunione.
Forse è l’ultima scelta,
il rientro sulla grande via
della consolazione.
Chi non ha niente da decidere,
perché è stato sempre di là,
una fitta la sente comunque un po’,
si sente ancora una volta estraneo.
Ma è solo un fugace palpito di pensiero,
immagina cosa gli direbbe
il suo amico musulmano.

VETRO RIGATO

Com’è la gente che incontri
nelle tue prime passeggiate
da convalescente un po’ imbranato?
Ti guarda strano e ha un tono
di voce più alto,
sembra che si muova a scatti
e che ti debba urtare
da un momento all’altro.
Nella pioggia di primavera
tutto sembra fluire come
da dietro un vetro rigato.

LE LUCI DELLA SERA

E le parlo piano. A lei piace
raccontarmi i suoi sintomi,
minuziosamente, da esperta.
E sprofondare in se stessa.

Quando esagera con le dosi dice
che non riesce più a sognare,
vede soltanto un grande tunnel ne-
ro, interminabilmente buio e profondo.

Le luci della sera ora entrano nella stan-
za, quiete e defilate ma troppo lontane.
Sono luci che non illuminano,
come parole che non dicono.

UN SECONDO ORIZZONTE

Nel cielo che si libera
dagli ingombri dell’inverno
in attimi tra veglia e sogno
si leggono i segni
di una nuova aurora.
Poi risprofondo.
E mi vedo camminare
in un tunnel multicolore,
come un parco giochi di periferia.
Il tempo è in adagio molto,
ma nuove porte della percezione
si aprono
in questa incantazione,
o si schiudono al passaggio lento,
ora che hai scoperto
che sei un niente
e che anche la vita è un accidente.
E’ la via che conduce
a un secondo orizzonte.

SILENZIO

Solo a un certo punto
mi sono accorto
con stupore, che il giorno
trascorreva in silenzio, privo
di suoni, senza parole,
con sensazioni ovattate;
nel silenzio i rumori
persino erano radi, circospetti
mestamente educati.
Pensieri insolitamente discreti
si guardavano dalla tentazione
di penetrare questo
mondo di tranquilla penombra
di cui mi sono innamorato ormai
disponibile e pronto
anche subito alla rinuncia
di quello che resta. E allora
sono entrato nel mio stesso
sogno da sveglio e ho indugiato
girovagando a lungo
intorno nell’Ade
del mio passato lentamente
guardando incredulo
occhi e volti dimenticati da anni.
Anche i miei errori erano esposti
in bella vista, ciascuno
una lettera dell’alfabeto.
Avrà pur voluto dire qualcosa
questo linguaggio cifrato
di simboli o è solo un mondo
ben ordinato. Dicono che l’universo
privato dei propri errori è un mondo
soggettivo. Mai errore più grande.
Anche qualche speranza
del tutto dimenticata fluttuava
nel silenzio del non-ritorno.

UNA NOTTE SENZA INGANNI

Si parla così, senza pensare,
anche se con accento
cadenzato. Stanca la mente
e sconvolge i pensieri
l’allegria dolorosa,
educata, di circostanza,
incuneata nel niente
del giorno. L’ottimismo
è contagioso, rassicurante, radioso;
ben dispone, abbassa l’allarme:
è un anestetico alla diffidenza
e anche se non si ha niente da dire
tiene lontani gli affanni
dell’ermeneutica dei rapporti umani.
E’ come un quieto rituale
questo scambiare le buone maniere
per buon umore.
Ma anche se coglie
nel segno il messaggio
risulta sbiadito.
C’è qualcosa che manca.
Come a scontare una divina
colpa del giorno,
a garantirsi una notte senza inganni.

DERIVE OSMOTICHE

Un istante d’angoscia
apre uno scenario
di complicate funzioni
simbiotiche, derive osmotiche.

Osservo incantato
quella scena di teatro
come un sogno recitato
di cui sono l’attore

ma non il regista. Il regista
ha un’altra idea dei miei
personaggi interiori. Mi sogna
sognare, nemico giurato.

(I)

Quando finisce un verso
finisce il mondo.
Gli “a capo – è vero –
segnano la rinascita,

miracolo di continuità
all’insaputa degli dèi inferi.
Il mondo sembra far da sé,
tesse la sua tela di nodi,

ma quello stacco
di fine verso
è fosso dopo
l’inciampo.

(II)

I suoni della notte
hanno qualcosa della musica
e qualcosa della casualità
del rumore.

Segnano lo spazio,
scandiscono il tempo,
sono come un’eco
della giornata trascorsa.

Amici che ci trattengono
dall’entrare troppo in profondità
in noi stessi. Ci accudiscono come
cani fedeli. Il silenzio non esiste.

II – LA SECONDA DELLE PARTI
(NERO PROFONDO)

GIOSTRA

I tuoi sono passi
da pensionato
anche se stai parlando
con il concessionario
della moto.
Non è la pressione
che ti fa girare la testa,
ma questo cortocircuito
tra dinamismo e stasi.
Qualcosa ti dice
che la giostra
non si vuole fermare,
non ti vuole lasciare in pace,
né forse ti piacerebbe.
Quello che si perde
in questo confuso
e lento stillicidio
è il senso.
Diventa double-face
girabile a piacere,
avvolgibile
in un senso o nell’altro.
Una polla
di equivoche
assonanze
magicamente rivoltate.

RATTRAPPITO

Facile il paragone
-nel giorno del solstizio d’inverno
con il sole a mezzogiorno
allo zenit sul tropico del Capricorno-

coi momenti migliori dell’estate
soffiati appena via e non da poco.
Il freddo rattrappisce
i pensieri e le membra.

Ma qualcosa di buono ce l’ha
anche se con questo freddo
la musica non suscita emozioni
e le notizie non sembrano buone.

Non lo sarebbero forse anche
senza. Condensa la normale
e burocratica tristezza
di vita quotidiana

in grumi che con docile
facilità scivolano via.
Non sembra ci sia tutt’intorno
posto migliore dove stare.

IL CANTO DELLE OMBRE

Sussurri disordinatamente
infittiscono di vuote presenze
il paesaggio della mente.
E’ il canto delle ombre.

ALLEGRIA D’AUTUNNO

Insensata allegria d’autunno
nella raffica di gocce
che ritmano sull’asfalto
il respiro della pioggia.

Fornisce una musica nascosta
al silenzio dei vivi tutt’intorno.
Radi e circospetti
Incappucciati.

CENNO

Basta un cenno di benvenuto
quando arriva il silenzio
anche se prima l’ho bevuto
in mille gocce d’assenzio.

LA PRIMA STELLA

La prima stella
avvolta in un poetico chiarore
si pavoneggia e si fa bella
brilla di cielo e di infinito altrove.

LA FINE DEL GIORNO

Alla fine di una giornata equinoziale
d’autunno si depositano
pensieri come grani di polvere
abbandonati dal sole e dal vento.

Sembrano contenti che oggi
è già ieri. Ma allora perché
si sente ancora il mormorio
indistinto dei tuoi desideri?

ERRANZA

Nelle vibratili e liquide luci
di un paesaggio inconsueto
disegnano le impressioni ramificano
strani contorni sul nucleo delle cose.

Le grumescenze di folla anonima
traccianti convoluzioni sconosciute
nell’agitarsi di un pulviscolo di volti
volgono alla condizione delle ombre.

A dirti: non è lì che devi andare
non è qui che dovresti stare.
Ma non sanno che è proprio questo
il segreto dell’erranza: spaesare.

MOTIVO QUATERNARIO

Il motivo quaternario
di questo battito
quotidiano
che si dipana enigmatico

negli anfratti delle ore
costruisce la trama delle attese
come una prigione
ancestrale.

NOTTE SU NOTTE

Oggi la notte è entrata
nel giorno in profondità,
protraendo l’alba fino
al primo pomeriggio
e lasciandosi dietro
una bava di sogni.
Il giorno ha ceduto
all’oltranza inferta
con un’indifferenza
rassegnata ma ostile.
Capita che un giorno
abbia poco da dire.
Notte a notte che entra
si ricongiunge stasera.
Attenua ogni respiro,
annullando ogni urgenza.

TRA IL NON ANCORA E IL MAI PIU’

Non capita di frequente
di spendere un intero giorno
completamente senza ritmo;
galleggiano gli accenti,
urtandosi a caso in posti
sbagliati; non senti il tempo
e non ti manca: se ti manca
qualcosa non è il tempo;
ti senti indifferente
nel flusso silenzioso;
pause divorano i momenti forti
nel brulichio d’istanti
di cui si percepisce appena
il senso che affiora:
il tempo
si autoinghiotte;
uno strascichio di momenti
sincopati, sillabati è soltanto
quello che affiora
ma non senza un sereno oblio
di come e di perché; volteggiano
come pedine
nella stessa casella
questi momenti,
si pentono di essere nati,
nella mistica di urti
trasognati tra il non ancora
e un mai più.

RIZOMA

Fuori dal cammino
di un quieto grigiore
in mattine dalle sveglie petulanti,
fuori da giornate piene

di insensate ansie, lontano
dall’uncino di troppo consueti
impegni inutili e snervanti,
ecco la Notte.

Nel fitto ombroso del bosco
la luce apre uno spiraglio
di tanto in tanto. Vedo
qualcosa che non dovrebbe

stare sopra ma sotto:
è un rizoma, il fusto
sotterraneo somigliante
a una radice, più o meno allungato,

lungo il quale si dipartono
le radici. Le sacre radici. Solo
un attimo, lo sguardo poi coglie
la chioma e si schiarisce la radura.

CONFINE

L’improvvisa instabilità ferroviaria
proietta i passeggeri
in una nuvola di suoni e di sapori
che si assiepano in una folla silente

come un ermetico confine
di un mondo che si vuole sconosciuto;
è fuori dalla traccia e dalle carte
indefinito, incognito e lontano.

La promiscuità razziale confonde
e svia, come l’intruglio delle lingue;
potrebbe essere ovunque, ma lontano
dall’orizzonte delle segnalazioni.

Nessuno sa dove né quando resterà
le sensazioni attutite impediscono
l’orientamento spaziale. Il tempo
fluttua come una nuvola di fumo.

SPROFONDO

Dopo un certo numero di passi
inequivoca e netta sensazione
di trovarsi in un labirinto
sotterraneo, scavato nel tufo,

come in certe zone anatoliche
per nascondere l’armata di Senofonte.
La folla nello sprofondo agitata
pulsante  in tutte le diramazioni.

Sotto i bassi soffitti liberando
un chiacchiericcio incessante e intubato
fagocitata folla che invelenisce
in percorsi smisurati e celati.

Le persone ora sembrano senza volto
ma muovono labbra incessanti:
Uomini-Lingua, Uomini-Parole,
come in certi film di vecchi manicomi.

CONDANNATO

Il macilento portiere dell’albergo
insiste nel cercare di convincermi
di non avere la prenotazione,
che invece ho fatto e pagato.

Più che un hall consona a un hotel
sembra un’aula di tribunale
e il portiere è un portiere togato.
Non si capisce a tratti nemmeno

la lingua in cui parla. Ripete e ripete
ossessivamente una frase
con querula e agitata petulanza
e sempre più accalorato

sotto lo sguardo partecipe
e plaudente della folla radunata.
Qualcuno mi comunica impassibile
che sono stato condannato.

LA TERZA DELLE PARTI
(BIANCO CHE VOLGE AL GIALLO)

Il sole come una fanciulla
alla prima uscita.
Sbatte le ciglia
si inebria di sé.

IL VENTO

Il vento gioca come con una foglia.
Non è facile indovinare i suoi disegni;
più arabescate onde che disegni
il vento attorciglia – con il sole

allo zenit sull’equatore – flussi che si dipanano
nell’aria; ora il vento è il mare che sfoglia,
ora le fronde mansuete al richiamo,
che rispondono come un coro ondeggiante

nell’abbandono dell’ora. L’aria d’equinozio
è limpida di benessere, frange le nubi
mostrando il sole che invoglia
come all’apertura di un sipario.

Fa anche un inchino, il vento,
si avvolge, ma poi sbuffa e soffia più forte,
come in preda a un’improvvisa voglia
di spingerti in mare dalla scomoda

posizione su uno strapunto di roccia
con i piedi penzoloni e il volto
all’indietro ad abbeverarti di raggi,
a ricalcare un’immagine antica,

fanciullesca, ancestrale, per sbriciolare gli anni
e dissolvere la nuvola dell’inquietudine.
La bellezza adora eterno il presente.
Ma il vento è movimento,

non lo puoi quietare
accarezzandolo come un docile animale,
sfugge, guizza come quel pesce uccello
che si è levato in volo per corteggiare

la sua preda sul luccichio
di acque stuporose e profonde.
Tutto è movimento sulla soglia dell’immobilità
del meriggio. Tutto freme e guizza

come una foglia. Sei tu quella
foglia. Premio per aver osato l’inosabile.
Aver barattato la propria presenza
con un’ora senza direzione.

UNA MUSICA SENZA NOME

Le parole fuori circuito,
quelle che non servono più,
senza funzione,
di puro piacere,

di duemila anni
o di dieci minuti appena,
si alzano come
lucciole incantate

su per la collina e formano
a quest’ora una costellazione
di pura bellezza,
una musica senza nome.

LE NUVOLE SCULTRICI

Il sole è la fonte, ma le nuvole
scultrici. Attraverso il mutevole
loro configurarsi per masse
e filamenti, cirri e cumuli

proiettano sul mare accogliente
figure cangianti e sorprendenti,
aprono e chiudono il diaframma
del cielo. Quello è un volto,

quell’altro un astratto
coacervo; lì un buco nel velo.
A un certo punto offrono a una vela
che solca le acque ignara

del temporale in arrivo il lembo
di un alone di luce. Sembra
che sia la vela ad espanderlo,
come si tira un lenzuolo.

Ma le nuvole sono capricciose,
offrono e negano.
Sono le amanti del vento,
puro spirito di cielo.

La terra, muta e vagamente
in attesa come una trepida
fanciulla, freme nel grigio
azzurrato d’atmosfera

sotto la collina. Accoglierà
quello che le nuvole decideranno
di dare: il sollievo di una falsa minaccia,
lo scorazzare del temporale.

CANZONE

Basta poco, una canzone,
ne decifri le parole
ma forse non hanno importanza,
quello che ti rapisce è il richiamo,

la sua portata,
l’impressionante
suo potere ancestrale.
Basta un niente, un’emozione.

Sembra spingerti a guardare
negli occhi il tuo altrove.
Non ti resta che mormorare
rapito una sommessa serenata.

LENTEZZA

Niente ha più senso ormai
nel deserto irrequieto
di abitudini antiche,
di nuove lontananze.

Sto qui, ma non più,
a sperimentare irrealtà
sfiorate, riconoscersi
estranei vivendosi.

Lentezza associo a freddo
e nel freddo non si sta bene.
Nemmeno le parole sono
simili, non si amano,

non si somigliano,
ma mi vengono a lato come
cani molesti, sia pur timidi
e con la coda tra le gambe.

Cercano qualcosa, perplessi.
Non celebro.
Rallento. Nello spazio
di un alberghetto improbabile

dove si mangia male
e nemmeno una spiaggia d’inverno
per dare un calcio ai problemi.
Rallento, rabbrividisco.

SUPERFICIE

La superficie
appena eretta
su un crocevia
di confusioni

si lascia attraversare
da gesti e parole
dal significato
sdrucciolevole

e scivoloso.
Non oppone resistenza,
come in una pratica
identitaria

rovesciata.
Anela
all’uguaglianza
delle contraddizioni.

LO SPECCHIO

La cornice è vuota davanti
alla quiete dello specchio
nella bottega polverosa.
Lo specchio è appoggiato
davanti a una pila di tele vuote,
immacolate, in un ghirigoro
di dimensioni irregolari.

Nel bordo di una striscia di polvere
-frammenti  del mio volto distratto-
con un simbolo strano, di riflesso
(segno di nessuna mano).

Nell’atto di sfogliare
-ingordigia di possesso come
un’illusione di opera compiuta-
si allontana distratta
la cornice dallo specchio
che cade al rallentatore. Nello specchio
lo specchio va in frantumi,
in ciascuno dei quali
c’è una parte del mio volto distratto.

IL MARE D’INVERNO

Nella luce che scheggiava il manto
di neri detriti mi sono avvolto
con pacata lussuria,
con splenetica ingordigia.

Sembravo un cane zoppo
e ansimante; ma solo da vicino,
da lontano potevo anche
apparire un dio ignaro

che accarezza la riva.
Così appare la spiaggia
a chi d’inverno
muove lento i pensieri,

spoglio di desiderio.
Ma a me è bastato il rumore
della forte risacca
per rievocarne il lontano splendore.

UNO SGUARDO

Uno sguardo dall’ermeneutica
ambigua e sfuggente
trasforma la luce in una tenebra
accecante. Il significato

compensatorio di questi segni
mi sfugge, anche se non mi allarma,
come nella quieta familiarità
di un fraterno arcano.

LA SCOSSA DELLA DIVERGENZA

La scossa della divergenza si spande
solo in un’ora particolare
doppia direzione sperimentale
quando è difficile restare o andare.

Tempo contraentesi e dilatandosi
gonfiando di possibilità inespresse
l’ebbrezza del salto, la pace della quiete
Lo stato d’animo volge al suo contrario.

Vuole e non sa, sa di non volere
scivola tempo in un passato presente
Di tutti i viaggi resta il fascino
di quell’unico, impossibile e irreale.

Iv – LA QUARTA DELLE PARTI
(ROSSO)

UN REGALO

Quel dono che ho accolto
da mani inaspettate,
ammiccante e leggero,
sembra alluda a quel dono
sempre atteso e mai dato.
E a rimirarlo passo
la giornata – ogni piega
la fitta di un ricordo,
ogni minuto l’eco discreta
del passato. Lo slaccio
è lento come quel gesto tante
volte o forse mai arrischiato.
Ne accolgo dopo un tempo
che appare interminabile
(ed è forse solo un lampo)
il segreto celato.

L’ODORE DELLA GUERRA

C’è un volto che ci interroga
da una foto scattata di fretta,
quello di una bambina siriana
con i suoi occhioni profondi.

Viene da una guerra maledetta.
Al massimo le forniremo
gli elementi minimi di un’accoglienza,
per non farci sentire in colpa.

Quella bambina arriva
da una grande civiltà implosa.
Non ci sta chiedendo nulla,
ci guarda soltanto.

Non sappiamo cosa sia una guerra,
la vediamo solo in televisione,
lei l’ha subita dalla nascita
tra le macerie della sua terra.

IL RIMBALZO DEL GATTO MORTO

Il “rimbalzo del gatto morto”
chiamano in Borsa il parziale
recupero dei titoli, dopo
una disastrosa caduta e il panico generale.

Ma sembra più che altro
di assistere al ringhio
del cane vivo
e a una disfatta colossale

IL PIANTO DELLE MADRI

Accarezzare la carne della sua carne
straziata dalla violenza, cullare
il corpo senza vita di un figlio straziato
è il primo passo all’inferno per una madre.

Non ci può essere nulla, niente
che riscatti quella sofferenza.
Con quel figlio muore anche la giustizia.
E’ una condanna intrisa di veleno.

Li trattiamo come nemici
di un esercito in guerra.
Ci stiamo esercitando
in un odio programmato

che provocherà altri lutti.
Temiamo la violenza
che starebbero covando
i migranti e siamo convinti

delle nostre convinzioni.
Ci siamo sostituiti a Dio,
siamo diventati giudici supremi,
senza processo, come un’esecuzione.

Molti di loro sono solo bambini.
Il pianto delle madri
non potrà lenire quel lamento,
sanare quell’immenso dolore.

BAMBINI SOLDATO

Se trecentomila vi sembran poco
considerate che sono minori
e se per i capi è altissima la posta,
per i bambini soldato sembra un gioco.

Oggi un bambino di 10 anni può usare
un AK-47 come un adulto,
visto che è un’arma automatica e leggera
e come un adulto sparare e ammazzare.

Più docili all’indottrinamento,
i ragazzi non chiedono compenso
e più facilmente di un adulto
scivolano in un gioco violento.

Affrontano il pericolo con incoscienza
totale, attraversando campi minati
o intrufolandosi nei territori nemici
con la spavalderia dell’adolescenza.

Ma gioco non è, se e quando tornano a casa,
malati, depressi, imbottiti di farmaci,
con ricordi atroci e micidiali incubi.
Dell’infanzia hanno fatto tabula rasa.

TERRORE A PARIGI

La ragazza che fugge spaventata
gli sembra una lontana conoscenza
sui marciapiedi di un vecchio ponte
nel pieno centro di Parigi.

Le immagini sono scure e confuse,
a tratti sembra un uccello in volo
e qualcuno dietro lo sta strattonando
tirandogli violentemente

un lembo della giacca bagnata,
da cui cade il portafoglio
con una carta di riconoscimento,
ma quella carta non gli appartiene.

Piove a dirotto, sente l’acqua
che gli sale su per le ginocchia
nel crepitio degli Ak 47
che falciano la gente per strada.

MEDITERRANEO

Questo era il nostro mare,
l’acqua benigna
che ha nutrito la nostra
infanzia mediterranea.

Ora non si sa più di chi sia,
a chi appartenga questo mare
trasformato
in un regno dei morti.

Fanno impressione e orrore
le dichiarazioni sciacalle
e la retorica della violenza
della maggior parte dei politici,

i titoli bastardi dei giornali,
il sapore amaro dei reportage
sulla “pioggia di fuoco”
degli aerei francesi su Raqqa.

Fanno orrore, appena un po’ meno
di quei morti viventi
che hanno sparato a Parigi.
Ma solo un po’.

VIAGGIO NOTTURNO

Sugli scogli che affiorano pigri
tenero è il sussurro del vento
per onde che fremono cantilenanti
nella scia della barca che solca
la notte.
Nel mare una distesa di silenzio
complice delle ombre sulla costa
in un manto che nasconde le anse
come una coperta di affanni.
Il viaggio notturno cerca
l’orizzonte
e la sua concava malinconia
nella brezza ondivaga e mutevole
delle sue diecimila direzioni.

UNA SOLITUDINE DI SABBIA

Alle cinque del mattino suona l’allarme
nel nostro albergo di Los Angeles,
un falso principio d’incendio.
E’ buio sulla California.

Ne approfittiamo per fumare
nella smoking area fuori l’hotel:
in cinque, tutti arrivati la sera prima,
tutti reduci dal deserto dell’Arizona.

Adunata che sembra un ritrovo,
con negli occhi il ricordo
di quella straordinaria
esperienza. A turno salmodiamo

il mondo attraverso i deserti:
il Sahara, il Sinai, il Negev,
qualcuno anche quelli dell’Australia
e dell’Estremo oriente. Il mondo

raccontato attraverso i deserti,
ciascuno con le sue caratteristiche,
al confronto con la propria
solitudine. Una solitudine di sabbia.

AGAVE AMERICANA

Sto rispondendo qualcosa
mentre mi accorgo
che dal finestrino dell’auto
su una strada della California

si vede un albero di Agave
americana. Questa
pianta ha qualcosa
di familiare, come

una metafora. Si accresce
con gran vigore
per dieci-quindici anni,
quindi fiorisce

un’unica volta e poi muore.
E’ una pianta poetica
e stenta a tollerare
la replica della bellezza.

TASTI BIANCHI, TASTI NERI

Perfetto sull’onda del fiato
senti il suono, tutto un canto.
Volteggia divina e altera,
tocca il piano come furia

e accende la notte e l’amore.
Tasti bianchi, tasti neri.
La musica come un delirio.
Cenni solo a me diretti

si lascia sfuggire talvolta,
madrigali sospirosi,
fraseggio e concerto d’amore
come quelli di una volta

prima di passare
al cospetto
da amante
a spettatore.

MEZZO FORTE

Nello spartito delle emozioni
il musicista modula
con pause e suoni.
Gli basta un “rallentando”,

un “mezzo forte”,
un “andante con moto”.
Ma le parole sono nude
nella lingua senza grafia della poesia.

SAX

Il sax è reso vivido
da un raggio di sole
che ne turba la quiete
ma lo riempie di furore,
pronto come un amante
al primo bacio,
fremente dal trespolo
in un tripudio
di complici riflessi:
lo rivestono d’oro
e di lussuria.
Alla sua destra una chitarra,
bianca,
lunare e già discinta.
Disteso, è quieto
il piano tenebroso.
La batteria si copre di tatuaggi,
sente pulsare spiriti guerrieri.
Anche se la musica
è solo in testa,
letargica e privata,
è qui che il sole
ha aperto le danze
come danze d’amore.

IL TUONO CHE ANNUNCIA

Comincia così,
suonando senza voglia.
Il grigiore del mondo
non invoglia
a superare la soglia.
Suoni si perdono
in silenzi interdetti,
l’infertile staticità
della melodia
si immobilizza
in un pantano desolato
e inonda di pause
suoni appena accennati;
di sguardi corrucciati
occhiate
e desideri frustrati.
E’ più vivo e sonoro
il tuono che si annuncia
lì fuori nel cielo
ed è questa la scintilla
che fa vibrare la sala prove
e scuote
con fertile motricità
ritmi felicemente ingranati.
Stiamo imitando il tuono
che ha assunto,
non si sa perché,
una configurazione
particolare: quella
del nostro stato d’animo,
prima borbottante
e pigro
poi esultante e foriero
di pioggia forte e vitale.
Come la vita, che è
al di là di ogni morte.

NON TI LAMENTARE

No, non ti lamentare
se alzi il viso al cielo
e ti piove dentro
pensa che domani sarà diverso.

No, non ti lamentare
fai un sorriso
e non guardare di traverso.
No, non ti lamentare

lo vedi anche tu che la natura
sorride sotto il velo
aspetta il momento giusto per uscire.
No, non ti lamentare…

DOLCE AMICA CANTI AMORI

Mia compagna canti e amori
dolce amica, bei tesori
da un vita senza inganno
siamo andati delibando.

Ti ricordi quella volta,
eravamo ragazzini,
ci scoprirono una sera
(volevamo farla noi

la scoperta).
E giù le botte.
Ma nel sangue che colava
dal mio naso mi rimase

il sapore malandrino
e inebriante delle tue
cosce.
Dolce amica i canti.

Ora ti seguo.
Lontano.
Anche se famosa,
ti amo.

Mia compagna canti e amori
accendendo i nostri sensi
abbiamo spento
le angosce.

MADRIGALE I

Nella vita banale
che scivola e non lascia che ombre vaghe
-infestate di piaghe-
tu, la più viva che mai, immateriale

come un sogno rituale,
rinnovi nel ricordo sensazioni
antiche, che il tempo non ha sbiadito
come un colpo mortale

su insepolte emozioni.
Indeciso se chiamarti,
sfinito
di desiderante invito,

percorro ancora
una volta il tuo seno.
Con te presente
ritorna il sereno.

IL SONNO DI PINETA

Il sonno di pineta è pieno
di suoni nel giorno
del solstizio estivo
con il sole allo zenit

sul tropico del Cancro,
alle tre di pomeriggio,
-la mia ora preferita,
quella in cui il fauno

a passi felpati sceglie
il suo luogo-  il tempo
sembra rallentare.
Tra i cespugli di macchia

si intravede il mare
qualche metro più sotto
e sembra  volerti cullare
con  il suo borbottio

sugli scogli affioranti,
accolto con compiaciuto
assenso da una coppia
di gabbiani incerti

tra seduzione e stasi.
Il caldo eccita il frinire
delle cicale e sulla terra
coperta di foglie lucertole

guizzano ebbre
intorno al tuo giaciglio
regale di sogni.
Il leggero venticello

di brezza sfiora la pelle
come una carezza
prolungata e le palpebre
lasciano filtrare

il movimento delle luci
in un caleidoscopio
che invita a una quieta
meraviglia.
Il tempo si fa ondivago
e lo spazio si dilata:
è tutto lontano
e tu lo senti.

I tuoi spiriti protettori
vigilano sul tuo corpo
di terra con i loro mille
occhi sorridenti.

UNA MADELEINE AL MIRTO

La mia piccola Madeleine
odierna è un biscottino di mirto.
Non so bene Madeleine di cosa.
Più che di memoria di luoghi

è memoria di poesia.
Un frutto che rimanda a rime
e ritmi dannunziani, a mitologici
splendori versiliesi; sa di macchia

e di languori pomeridiani
e di sensuosi abbandoni.
E’  dolcezza di una poesia
senza complicazioni;

sa di baci e di carezze
tra cespugli e anfratti
in una nuvola di rime
e di suoni.

Avete presente
quando un cagnolino
vi scodinzola intorno
svegliandovi

o anche un bambino
di cui avvertite sulle guance
il contatto del bacio
prima di aprire gli occhi?

Così mi è apparsa
un’idea all’alba
che sto inseguendo
da mille notti.

Nientedimeno che
una “definizione”
della poesia.
Una vocina ripeteva:

“Che cos’è la poesia?
Tutta la musica,
più il senso”. Ora
ci penserò tutta la giornata.


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