Antonio De Lisa- Il teatro si fa con le parole. Ma con quali parole? Per un’apertura del teatro alla dimensione social-filosofica

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Antonio De Lisa- Il teatro si fa con le parole. Ma con quali parole?
Per un’apertura del teatro alla dimensione social-filosofica

 

Che cos’ha di speciale il testo teatrale che va per la maggiore oggi tanto da sembrare a molti privo di interesse artistico? Proviamo a fare una riflessione articolata. E’ perlomeno doveroso chiarire alcuni presupposti, prima di dispiegare in pieno il ventaglio delle proposte.

Il primo dato che salta agli occhi è di tipo analitico. E’ un’epoca di molteplicità e di varietà assolute. Sembra che ogni drammaturgo (nel senso più ampio) faccia storia a sé. Anzi, che ogni singolo copione teatrale faccia storia a sé. Non sono riconoscibili scuole, se non piccole cordate; non sono visibili opzioni di poetica, perché spesso lo stesso teatrante articola il proprio percorso in più direzioni. Lo stesso trattamento della materia prima del teatro, cioè il suo proprio linguaggio, è ampiamente prospettico, dallo sperimentalismo al pacato e a volte dolente intimismo.

Da un punto di vista storico, il periodo che va dalla metà degli anni Settanta ad oggi è il meno definibile possibile da questo punto di vista. E’ l’immagine stessa della frammentarietà. E lo si afferma in questa sede come puro dato di fatto, senza implicazioni.

E’ anche un’epoca di grande abbondanza produttiva. Come se la scena fosse l’ultima isola di testimonianza prima del silenzio. Le due cose forse vanno insieme. Abbondanza e frammentarietà non sono scindibili.

Ma fatta questa premessa, su cui si dovrà tornare per chiarirne gli elementi interni ed esplicitarne le connessioni, bisogna passare all’altro punto, ovvero: di cosa è specchio questa frammentarietà? E’ una domanda che presuppone un inevitabile rispecchiamento tra condizione della società e stato dell’arte.

Frammentarietà e proliferazione sono in questa prospettiva l’epifenomeno, per così dire, di una condizione di fondo di uno stato di cose che ormai è andato oltre anche il post-moderno, superandolo in prospettive ancora più caotiche e confuse. E’ questa la condizione che chiamiamo di “precarietà ontologica”. Non c’è più niente che tenga come punto fermo, come punto di riferimento. Non ci riferiamo certo ai vecchi valori (ideologici), ci riferiamo ai valori in generale. Resta solo l’”io”. Cioè una situazione in cui solo l’individualismo più isolazionista detta le leggi del movimento. Ma proprio perché isolato, tanto più conformista. Una miscela particolare che si è venuta a creare in condizioni di mescidazione tra vecchi spezzoni di realtà e nuove aspirazioni.

La domanda da porsi si configura quindi in maniera più sottilmente articolata. Come si muove il teatro in questo stato di cose, in cui tutto fluttua in una condizione di precarietà generale (anche lavorativa, anche di condizione sociale)? Forse, tutto sommato, conserva una sua dignità. Zanzotto ha detto – dal punto di vista poetico- che chi scrive versi fa ipso facto resistenza civile. E’ sempre generoso, quello che è stato forse l’ultimo grande poeta italiano. Questa generosità è di tutta l’arte contemporanea, al di là di polemiche e dibattiti, ma tutte e due inconcludenti perché non fanno i conti col “mercato”, che in teatro risente delle scelte delle stagioni programmate dai grandi teatri.

Sembra appunto il “mercato” – la grande distribuzione-  a dettare le regole. Lo può fare perché chi fa teatro ha la tendenza a chiudersi in un suo spazio di autorealizzazione senza più guardare fuori: alla strada, alla realtà, alla società (più in generale), alla letteratura, alla musica. In quei contesti sono emersi bagliori di novità e di potenza espressiva che il teatro non ha saputo recepire, tranne che in alcune forme.

Con queste note non si propone certo una dimensione piattamente didascalica del testo teatrale, che non farebbe altro che allontanare ulteriormente il pubblico invece di ricatturarlo. La messa in scena deve avere caratteri di originalità che si manifestano anche nell’impianto scenografico, nell’uso delle luci, dei costumi, in tutto quello che è propriamente spettacolo. Usiamo questa parola – spettacolo- a ragion veduta. In una certa produzione saggistica si è voluto contrapporre il “vero” teatro allo spettacolo. Con tutta l’ammirazione che si può avere per gli esperimenti del “teatro povero” (da cui deriva questa polemica) pensiamo che si perda qualcosa riducendo all’osso le dimensioni sceniche, che possono essere qanche molto ardite, purché non si riducano a rappresentare per intero la messa in scena. Il teatro non è solo scenografia, né – al contrario- completamente spoglio di scenografia. E’ possibile immaginare una via di mezzo, o si chiede troppo?

Il XXI secolo ha cominciato a emettere segnali di crisi sociale e politica fi dai suoi esordi. Ma nessuno ha saputo tradurre questi segnali in termini teatrali. Non c’è da meravigliarsi se le arti della scena si siano trovate isolate nel flusso dei messaggi sociali, chiuse in un sua torva autoreferenzialità. Se riusciranno a cogliere questi segnali, è probabile che possano reimmetersi nel circuito vitale della comunicazione. Questo significa dichiararsi immediatamente politica, nel senso ampio della partecipazione alla polis; che non esclude certo la navigazione nelle plaghe profonde dell’io ma la rende simbolicamente evidente, partecipata, “sociale”. Il linguaggio del teatro non ha mai  temuto la contaminazione. E’ esso stesso generatore di conflitto, con i propri mezzi. Se si incontrano questi conflitti scoccherà una nuova scintilla. L’alternativa è il silenzio.

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