Antonio De Lisa- “Alcesti” di Euripide tra sacrificio, morte e resurrezione

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Antonio De Lisa- “Alcesti” di Euripide tra sacrificio, morte e resurrezione

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Questa sera ho l’occasione di vedere una rappresentazione di “Alcesti” di Euripide (Rassegna Velia Teatro). Confesso che senza questa doppia rappresentazione, “Elena” ieri, “Alcesti” oggi, non avrei avuto occasione di approfondire le figure femminili nel teatro di Euripide. E più ci penso, più l’argomento diventa affascinante. Perché l’ultimo dei grandi tragediografi greci gira così intensamente intorno all’universo femminile? Basti pensare a Medea, a Fedra, a Elena, ad Alcesti. Grandi eroine tragiche, ma soprattutto grandi figure della doppiezza e dell’ambiguità della condizione umana. Elena ritiene che a Troia sia andata al posto suo una nuvola fantasma; Alcesti sembra essere il “doppio” di Core, la figlia di Demetra che muore e risorge, e attraverso i Misteri chiama al medesimo destino di redenzione tutti gli iniziati.

“Alcesti” fu rappresentata nel 438, come quarto dramma, cioè per ultimo, al posto del dramma satiresco, nella tetralogia con Le donne Cretesi, Alcmeone a Psofide, Telefo. Di solito, le tetralogie si concludevano con un dramma satiresco: in questa occasione il suo posto fu preso da una tragedia che però presenta un lieto fine. Ci sono anche altri elementi che la rendono eterodossa, come il tono un po’ farsesco del personaggio di Eracle. Molti hanno voluto vedere in questo, un dramma satiresco e non una tragedia.

L’eroina che dò il nome al dramma è rappresentata nella mitologia greca come figlia di Pelia e di Anassibia. Il padre aveva deciso di darla in sposa soltanto a chi fosse stato capace di aggiogare a un carro due bestie feroci. Admeto, re di Fere in Tessaglia, supera la prova e prende in sposa l’eroina. Quando per Admeto giunge l’ora della morte egli ha la possibilità, grazie a un dono di Apollo, di sottrarsi a Thanatos, il dio della morte, purché qualcun altro muoia al suo posto. Ma nessuno è disposto al sacrificio, nemmeno gli anziani genitori del re. Sola, si offre di morire per lui, come supremo atto d’amore, la moglie Alcesti.

La rappresentazione che Euripide ci dà degli ultimi momenti di Alcesti è iscritta nel regostro del patetico. L’eroina, dopo aver pregato gli dei, dà l’addio al letto nuziale in un vortice di commozione e di lacrime. Ricorda che la sua morte è l’estrema testimonianza del suo amore per lo sposo; nessun’altra donna saprà essergli altrettanto fedele. Infine, le raccomandazioni per i figli: Admeto non dovrà contrarre nuove nozze, per evitare che essi debbano sottostare a una matrigna che non li ama. Poi, mentre i figli le sono vicini e le stringono affettuosamente la mano, Alcesti muore.

Mentre la reggia si prepara alle esequie, giunge nel palazzo Ercole, ignaro del triste evento. Admeto, pur di non venir meno ai suoi obblighi di ospitalità, tiene segreto il suo lutto: accoglie l’eroe e ordina che gli si prepari un abbondante pasto. Rimasto solo, Ercole banchetta e si abbandona a sonori schiamazzi, ma a un certo punto nota l’aria afflitta dello schiavo che lo sta servendo e da lui apprende che Alcesti è morta. L’eroe prova vergogna per il suo comportamento e vuole dare ad Admeto un segno tangibile della sua amicizia: farà di tutto per strappare Alcesti a Thanatos e restituirla al marito.

Dopo che Ercole si è allontanato, fa ritorno Admeto, reduce dal funerale. È un uomo distrutto: ora che Alcesti è morta, nessuno più gli verrà incontro salutandolo affettuosamente al suo rientro in casa; tutto gli sembrerà vuoto; intorno a lui ci sarà solo il pianto dei figli; ed egli avrà fama di vile, avendo permesso che sua moglie morisse al suo posto.

Ma ecco ricomparire Ercole che, dopo aver rimproverato Admeto per non avergli detto subito la verità, gli mostra la donna che ha con sé, il cui volto è coperto da un velo: è una schiava ‒ così egli dice ‒ vinta come premio in una gara, e vorrebbe che il re la tenesse con sé fino al ritorno dalla ‘fatica’ cui sta per accingersi. Admeto prega però Ercole di affidare la donna ad altri: la sua presenza, infatti, gli ricorderebbe quella di Alcesti, cui la fanciulla assomiglia in tutto, e ciò esaspererebbe il suo dolore; né egli potrebbe portarsela nel suo letto, perché verrebbe meno al giuramento fatto alla moglie. Ma Ercole insiste e infine, dopo molti rifiuti, Admeto acconsente a portarla in casa.

A questo punto Ercole toglie il velo alla fanciulla, che, con grande sorpresa di Admeto, si rivela essere proprio Alcesti: l’eroe, appostatosi presso la sua tomba, dopo una dura lotta è riuscito a strapparla a Thanatos venuto a bere il sangue delle vittime sacrificali. Restituita al marito, Alcesti potrà continuare a vivere felice con lui.

Le parole finali del Coro sono inquietanti e, invece di chiuderlo, aprono il senso del dramma:

Coro- Molte sono le forme del divino, molte sono le risoluzioni inattese dei celesti; quello che si credeva non si è compiuto, un dio trovò la strada per l’impossibile. E questa vicenda si è suggellata così.

 

La fortuna di Alcesti

La figura di Alcesti ha ispirato già in età greca e romana motivi iconografici (decorazione dei vasi, quali il Gruppo di Alcesti, di uno specchio etrusco, ora al Metropolitan Museum, di sarcofagi romani) e opere teatrali. Tra le opere successive a quella di Euripide  si ricordano quella di J. Racine, rimasta però incompiuta; quella di P.J. Martello (1709); l’Alceste seconda (1798) di V. Alfieri;  quelle moderne di B. Pérez Galdós e di H. von Hofmannsthal (1916); l’opera in musica di G.B. Lulli, su libretto di Ph. Quinault (1674), quella di Ch. W. von Gluck, su libretto di R. Calzabigi (1767). Quest’ultima fu applaudita a Vienna nel 1767 e alquanto discussa a Parigi in altra versione del 1776.

 

 

 


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