Antonio De Lisa- La notte di San Giovanni

Quando si arriva alla Cava Ricci di Pignola si ha l’impressione di entrare in un autunno perenne, quale che sia la stagione. Se piove, poi, come ieri sera, si ha solo voglia di tornare indietro. Ma tornare indietro non si può, devi andare alla Cava, devi fare questa esperienza, sottoporti al peso della materia, delle pietre, della polvere. E poi c’è Vinicio Capossela che si esibisce, in un tour che si intitola “Polvere”, che parte proprio da qui, dalla Cava Ricci di Pignola, in Basilicata, in altura.

La gente è rada, pensavi di trovarne molta di più. All’entrata c’è un recinto per cavalli, l’associazione che organizza l’evento è specializzata in percorsi equestri su per le montagne, tra i boschi. L’associazione si chiama “Compagnia della Varroccia”, che di per sè è un nome caposselliano. Il musicista di origine irpina sta precisando sempre di più la sua poetica, che ormai è qualcosa di ben definito. Si ha una certa curiosità a vedere dove conduce questo percorso. Ultimamente, dall’Irpinia, che è una zona della Campania, sta emergendo una serie di suggestioni territoriali che trovano nella poetica di Franco Armirio un punto di forza. E’ un paesaggismo neo-antropologico, di recupero e rilancio di dimensioni territoriali arcaiche e incontaminate. Ho sempre nutrito una certa diffidenza per queste cose, insieme a una certa curiosità, e questo è il momento di approfondire l’argomento.

Dando un’occhiata al palco in lontananza si può notare che è arredato come la scenografia di uno spettacolo teatrale. Ormai i concerti pop stanno assumendo una veste molto diversa da quelli del passato: conta la scena, la performance svolge un ruolo decisivo accanto alla musica. Ma non tarderemo ad accorgerci che Capossela va ancora oltre. Intanto, c’è più gente intorno agli stand di pane e salsiccia che davanti al palco. Non si riesce a capire quale sia l’ora esatta dell’inizio del concerto, si può solo intuire che la stanno tirando per le lunghe nella speranza che arrivi più gente.

Il concerto comincia in una bagliore di fuochi e di fiamme. Sul bordo del palco sono state sistemate delle spighe di grano che danno un colorito bucolico alla rappresentazione. Sul palco le postazioni dei musicisti sono come “cerrigli” di una festa di paese. Ci sono anche le luminarie, anche se solo accennate, due altoparlanti. Strapaese, ma in un senso molto diverso dalla corrente letteraria degli anni Trenta. Qui il paese è emblema e nostalgia, racconto e ideologia. Capossela entra danzando il ballo del grano, è nudo dalla cintola in su e sul capo ha un paio di corna ricurve: il capro espiatorio. Se non fosse lui, lo spettacolo richierebbe di scivolare nel kitch più pseudo-leghista, ma è Capossela e poi la canzone è anche suggestiva. I musicisti sno nove, abbigliati in costumi etnici: due che praticano il canto grecanico (Salento o forse Calabria, propendo per il Salento), due percussionisti dei tarantolati di Tricarico, due chitarristi, bravi, dua marachi pseudo-messicani che suonano la tromba, molto bene, un percussionista. L’impianto audio è megagalattico, ma soprattutto per la presenza imponente di sei grandi subwoofer, mentre il cluster dei toni alti non sembra molto apprezzabile.

Lì per lì non si capiscono le allusioni di Capossela, quando parla del fatto che “abbiamo tutto il tempo che vogliamo, e qui non disturbiamo nessuno, possiamo suonare quanto ci pare”. Risulteranno più chiare più di tre ore dopo, il tempo di durata del concerto, una colata lavica, un fiume in piena, una valanga di storie. Capossela gira intorno a un sol ostinato, con la sua quinta e la sua quarta, ma con questo giro armonico costruisce decine di canzoni. Ora si riesce a capire la vera natura di questo artista: Capossela in fondo è un cantastorie, uno che se ne va in giro per il suo paese immaginario, col suo organetto otto botti, a raccontare storie. Dentro queste storie c’è anche quella di suo padre, emigrato da Calitri in compagnia unicamente di un sogno, “tutto quello che aveva”. Capossela è un folk-singer, la sua arte viene da lontano e lontano torna, quando canta una canzone dei mendicanti che sembra un’aria del trecento.

Capossela parla e canta, per lui sono quasi la stessa, è un affabulatore che esibisce uno sfarzoso straccionismo linguistico e culturale. La notte punteggia il cielo di stelline compiacienti, sotto la rupe della cava. Qui Vinicio si sente a suo agio, tra rupe e dirupo. Alterna chitarra e organetto, accompagnato da una piccola orchestra di stralunati musicanti. Ritmi di taranta, mazurcati con svolazzi notturni ricamano di suoni la notte pignolese, tra cavalli e salsicce alla brace.

Un branco di giovani strafatti di generoso vino lucano inscena una danza tribale sotto il palco che coinvolge uomini, donne e fantasmi. Vinicio ha inscenato con consumata perizia il momento della fochera, il catuozzo, la pila di legna da ardere nella notte di San Giovanni. Due giganteschi fuochi si alzano nella notte, sono i fuochi di San Giovanni, i fuochi del solstizio estivo, dell’annuncio del raccolto, della promessa della prosperità. Un intero passato contadino risorge dalle suggestioni del mago, il fattucchiero compiacente e sornione che evoca i fantasmi, i suoi e quelli della terra.

Mentre gli inglesi stanno votando il Referendum sull’Europa, di cui ancora non si conosce l’esito ma che i più si illuderanno di vincere, subendo la più cocente delusione di sempre, mentre le isole lontane giudicano i continentali, qui, nella Cava Ricci di Pignola, nella perduta e sperduta Basilicata, si celebrano riti antichi scorciando tempo e storia. Capossela guida il corteo dei fantasmi, per tre lunghe ore spinge rimosso e rimorso verso i pendii dei dirupi, mentre i ragazzi sotto il palco vorticano in una danza che vorrebbe apotropaica ma somiglia un po’ troppo alla disperazione del precariato. Terre lontane, queste e non si capisce fino a che punto consapevoli di questi ricami di neo-meridionalismo paesaggistico.

La canzone che ora sta cantando Vinicio, “La notte di San Giovanni” è strepitosamente bella e finalmente capisco chi è costui, un De André in veste cocciutamente meridionale, sudista, romita, come l’uomo che veste i rami degli alberi (il “romito”), solitario e fuori dalla storia. Con lui tornano figure che sembravano scomparse se non in un’altra notte, quella di Sant’Antonio Abate a gennaio, l’inizio del carnevale. Per capire Capossela forse bisogna aver letto Ernesto De Martino e Diego Carpitella, conoscere l’oscura Lucania, l’antica Irpinia del ballo di San Giorgio contro il drago. Nella notte pignolese escono gli uomini dai boschi.

Il concerto è finito. Scendiamo a valle. In radio, su Virgin trasmettono una canzone dei Red Hot Chili Peppers. Il contrasto con quanto abbiamo sentito non poteva essere più grande. Ci stiamo lasciando alle spalle i fantasmi di Vinicio, le grotte e le cave di pietra, la polvere. L’esperienza è stata molto interessante, Vinicio va controcorrente, ritorna alle origini e gli auguriamo tutta la soddisfazione possibile. Le luci di Potenza fanno capolino tra le svolte della strada in discesa. La musica ci accompagna in questo rientro dove non ci sono uomini dei boschi, non ci sono “romiti”, ma forse solo la follia della vita quotidiana.




Categorie:C20.03- NARRATIVA / Smarrimenti e altri racconti meridiani

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