Antonio De Lisa- Il jazz tra radici blues, modalismo e avanguardia
L’improvvisazione
La musica è l’unica forma d’arte in cui l’opera esiste sia in forma scritta che, potenzialmente, in forma “sonora”. Dobbiamo quindi concludere che sia necessario distinguere due figure distinte ma complementari: creatore ed esecutore.
Nel jazz accade qualcosa di decisamente particolare: tali figure spesso coincidono per la presenza dell’aspetto improvvisativo. L’autore di un brano di jazz crea quello che in gergo viene chiamato “tema”. E’ di fatto una breve composizione e rappresenta il nucleo ispirativo di ogni brano, il canovaccio iniziale su cui costruire l’improvvisazione. I musicisti che si trovano a comunicare all’interno di un dato brano conoscono il tema nelle sue tre componenti essenziali: la melodia, l’armonia (cioè gli accordi sui quali la melodia si appoggia) e il ritmo. Suonare jazz significa essenzialmente improvvisare tenendo conto di queste tre dimensioni. Si capisce così l’importanza della relazione che esiste tra la tradizione (rappresentata anche dalla conoscenza dei temi, i cosiddetti standards) e la libertà che da essa deriva.
Ogni volta che ascoltiamo un brano di jazz siamo quindi di fronte a qualcosa di unico, irripetibile: un microcosmo legato alla concezione musicale dell’artista, che si esprime nell’attimo. In questo modo lo spettatore si trova ad essere testimone di un atto creativo in cui l’aspetto comunicativo diventa essenziale: l’intesa musicale tra i musicisti genera sempre del nuovo, anche agli occhi degli esecutori stessi.
Essendo una “composizione estemporanea” un buon assolo improvvisato è spesso strutturato in modo da contenere qualcuno o tutti i seguenti elementi: un’esposizione iniziale (introduzione, presentazione, esposizione di un pattern semplice); interazioni con altri strumentisti (il cosiddetto interplay); citazioni di brani e temi noti; un assolo che cresce di intensità fino a raggiungere un picco; ripetizioni di pattern o frasi; una chiusura.
Tutto all’insegna della variazione. Questa è la ragione per cui in molti dischi di jazz, soprattutto nelle ristampe, troviamo più versioni di uno stesso titolo (“alternate takes“). E questa è la ragione per cui vale la pena ascoltare differenti versioni di uno stesso tema suonate da musicisti diversi: le possibilità espressive sono pressoché infinite, ma il terreno comune spinge la creatività del musicista verso una dimensione di ricerca che innova senza scardinare, crea aprendo nuove strade percorribili.
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Dallo swing all’ipertonalismo del be bop
Un nuovo impulso alla tecnica dell’improvvisazione fu data dall’adozione, soprattutto da parte dei protagonisti della rivoluzione bebop (e tra i massimi Dizzy Gillespie e Charlie Parker) di tecniche d’improvvisazione fondate principalmente sull’impianto armonico del pezzo. Il solista che adotta questo stile si svincola completamente dal materiale tematico e sviluppa il suo assolo principalmente basandosi sulla progressione degli accordi del brano (progressione che può essere la stessa del tema o essere differenziata nella sezione solistica). In aggiunta, ogni accordo può subire delle piccole variazioni (sostituzioni armoniche) o anche dalla consuetudine e dall’evoluzione negli anni del linguaggio jazzistico.
La forma dei brani prevede l’esposizione di un tema (generalmente all’unisono), numerose improvvisazioni e la riproposizione del tema come finale. Le improvvisazioni sono però il fulcro dell’esibizione tanto che le melodie vengono spesso appena accennate mentre le improvvisazioni sono sempre molto estese; addirittura in alcune performance dal vivo il tema non viene nemmeno eseguito. Questa pratica permetteva di risparmiare sui diritti d’autore (che non si applicano alle progressioni armoniche ma alle melodie ed ai testi). Elaborare giri armonici preesistenti permetteva inoltre di semplificare il lavoro di composizione e di improvvisazione, fornendo ai musicisti un substrato a loro ben noto e familiare su cui creare.
Le melodie bop sono scattanti, spezzettate, nervose, spesso dissonanti. La velocità di esecuzione è molto elevata.
Il Be bop si caratterizza armonicamente per l’utilizzo di giri armonici preesistenti con frequenti sostituzioni armoniche, utilizzo di accordi diminuiti o aumentati, frequente ricorso alle dissonanze, nuove scale su cui improvvisare (scala bebop).
Con il termine scala bebop si intendono due tipi di scale impiegate dai musicisti Be Bop tra cui Charlie Parker e Dizzy Gillespie negli anni quaranta.
Questa scala è stata razionalizzata da David Baker, un didatta statunitense.
Esistono due tipi di scala be bop: la scala dominante be bop e la scala maggiore be bop.
Scala dominante be bop – È una scala misolidia con l’aggiunta della settima maggiore.
La scala misolidia si trova a partire dal quinto grado del modo maggiore (T-T-S-T-T-S-T o 2-2-1-2-2-1-2).
Intervalli: Tonica, 2 maggiore, 3 maggiore, 4 giusta, 5 giusta, 6 maggiore, 7 minore, 8.
Esempio: Sol misolidio = Sol La Si Do Re Mi Fa Sol
Esempio: Do misolidio = Do Re Mi Fa Sol La Sib Do
La formula della scala dominante be bop quindi è:
- 1,2,3,4,5,6,7b,7,8
- Sol La Si Do Re Mi Fa Fa# Sol
Scopo principale della scala è “posizionare” le note dell’accordo (chord tones) sul battere e le no chord notes in levare. Essa deriva da un processo di razionalizzazione nell’uso dei cromatismi e delle note di approccio. Ovviamente è essenziale l’accento delle note e la ritmica swing, mediante l’uso di legature e sincopi.
Scala maggiore be bop– È una scala maggiore con l’aggiunta della quinta diesis.
La sua formula è:
- 1,2,3,4,5,5#,6,7,8
- In Do suona come: Do, Re, Mi, Fa, Sol, Sol#, La, Si, Do
Essa segue lo stesso principio della scala Bebop di dominante: note dell’accordo in battere note che non vi appartengono in levare. Da notare però che in questo caso l’accordo relativo a questa scala si intende formato da 1,3,5 e 6 e quindi è un accordo di sesta.
Un approccio molto originale all’improvvisazione armonica fu quello perseguito, con largo anticipo sui bopper (che furono da lui influenzati), dal pianista Art Tatum che nella maggior parte delle sue esecuzioni, mantiene la melodia sostanzialmente invariata, mentre improvvisa nuove armonie e impianti accordali.
In questo stile, il ricorso ai cromatismi è molto frequente e nell’impianto complessivo dei pezzi, si nota una minore attenzione alla melodia (accade che il tema sia a volte un mero pretesto per lanciare l’improvvisazione, specialmente nell’opera di Parker) e agli arrangiamenti, mentre si esaspera la ricerca armonica e il ricorso ad accordi più esotici (di tredicesima, diminuiti etc.) rispetto al periodo precedente.
Nel jazz il solista resta comunque vincolato al giro armonico del brano (esposto normalmente dal pianoforte) e da qui – dato il numero limitato di strutture in uso – la tendenza compositiva a costruire progressioni armoniche sempre più complesse, cui reagirà il movimento modale.
Charlie Parker
La fama di Charlie Parker esplode nel 1945 proprio nei gruppi in cui milita assieme a Gillespie: le incisioni di Billie’s Bounce, Ko Ko, Now’s the Time, Ornithology (per citare solo qualcuna tra le più famose) rappresentano una vera e propria rivoluzione nel mondo musicale afro-americano.
In particolare Ko Ko viene generalmente considerata essere la prima registrazione di un brano in stile bebop mai effettuata, oltre che il manifesto musicale del nascente genere.
Ko ko
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Hard-Bop
I contenuti e gli approcci classicheggianti del cool e della West Coast, provocarono la reazione dei musicisti neri, i quali, ad eccezione di Miles Davis e John Lewis, si ritrovarono imbrigliati in questa nuova concezione musicale.
La loro reazione, fu indirizzata al recupero delle caratteristiche più marcatamente nere del jazz: le influenze gospel e blues, l’immediatezza, in contrasto con il jazz arrangiato del movimento cool, e soprattutto la scansione ritmica.
Accanto alle semplici progressioni tipiche, trovarono spazio le soluzioni armoniche del be-bop ed i temi tradizionali che si aggiunsero alle composizioni originali.
Questa tendenza stilistica viene denominata Hard-bop e presenta, quali elementi qualificativi, le denominazioni concorrenti di East Coast Jazz per indicarne la contrapposizione con lo stile West Coast di Funky per esaltarne le commistioni con il blues ed il gospel o ancora di post-bop per metterne in risalto la più immediata derivazione dal be-bop rispetto allo stile cool.
Dal punto di vista melodico ed armonico, l’hard-bop appare caratterizzato dalla bluesizzazione dei temi, attraverso strutture armoniche che esaltano il rapporto sottodominante-tonica (IV-I) tanto nel modo maggiore, quanto nel modo minore, e dall’utilizzo di sezioni ritmiche più omogenee e agili di quelle be-bop.
Le formazioni guida del periodo sono il quintetto con sax e tromba (Quintetto di Clifford Brown e Max Roach ), o il sestetto con sax, tromba e trombone (Jazz Messengers di Art Blakey, Jazztet di Benny Golson e Art Farmer ).
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Il jazz modale
Il punto di riferimento teorico del jazz modale (modal jazz) è noto. The lydian chromatic concept of tonal organization è l’opera di George Russell, edita nel 1953, che rivoluzionò la tecnica di improvvisazione nel jazz. Anziché utilizzare le scale tonali, Russell propose l’utilizzo dei “modi” musicali.
I modi derivano i loro nomi (ionico, dorico, frigio, misolidio, eolico, locrio, lidio) dalla tradizione musicale sacra del canto Gregoriano che a sua volta li mutuò dalla musica della Grecia classica.
Fino ad allora le improvvisazioni si erano basate sull’uso di scale e di gamme (un’ottava di scala a partire dalla prima nota, detta tonica), mentre i modi teorizzati in The lydian chromatic concept of tonal organization erano concepiti per avere la tonica spostata rispetto a quella originale della scala; con questo sistema si potevano ottenere soluzioni molto varie in virtù delle differenti posizioni che i due intervalli di semitono, presenti nelle scale, assumevano durante l’improvvisazione.
Russell sovverte il sistema fino ad allora conosciuto ponendo la scala Lidia a fondamento di tutta la musica e di un sistema funzionale nuovo, il quale utilizza tutte le scale che presentano il quarto grado alzato (in totale sette) prelevate dai vari sistemi scalari da cui derivano:
- Lidia
- Lidia aumentata
- Lidia diminuita
- Lidia dominante
- Esatonale (definita ausiliaria)
- Scala diminuita (semitono-tono, definita ausiliaria)
- Scala diminuita (tono-semitono, definita ausiliaria)
Queste nuove teorie riscontrarono immediatamente accesi consensi soprattutto nell’ambiente dell’hard bop e da parte di grandi jazzisti come Miles Davis e soprattutto John Coltrane che divenne il più autorevole esponente del jazz modale.
Il jazz modale sostanzialmente svincola la progressione degli accordi dalla tonalità del brano (cioè non richiede che gli accordi siano necessariamente rispondenti alle regole dell’armonia tonale, ossia costruiti per armonizzazione dei vari gradi della tonalità). Inoltre associa ad ogni accordo differenti scale “modali”, ciascuna con una sua tonica, dalle molteplici e differenti sfumature, sempre in maniera indipendente e svincolata dalla tonalità. Nell’analizzare questo genere musicale si può infatti parlare di applicazione successiva di differenti scale modali (non necessariamente diatoniche, ma ad esempio anche pentatoniche) invece che di successione di accordi: nella composizione di frasi e periodi musicali si usano frammenti di scale modali fra loro in relazione, mentre il passaggio da un periodo ad un altro (caratterizzato da altro accordo o scala modale) avviene mediante particolari soluzioni melodiche, senza che i suoni siano mai in evidente relazione con una tonalità. Si ragiona quindi prevalentemente in maniera scalare (ossia pensando “per scale”) e le stesse armonizzazioni e costruzioni di accordi possono muovere su tutta l’estensione di una data scala, potendo impiegare potenzialmente qualsiasi nota. Viene così a perdersi la simbiosi tra armonia e melodia che aveva contraddistinto tutta la produzione jazzistica fino all’avvento del jazz modale.
Il jazz modale nasce come reazione al Bebop e all’Hard bop, che avevano incrementato le strutture jazzistiche con progressioni armoniche di tipo tonale caratterizzate da numerosi accordi diversi e numerose sostituzioni armoniche, spesso accompagnate da un ritmo ossessivo, opponendo ad essi la ricerca di una situazione musicale più distesa e di maggior distensione sia sul tempo che sull’armonia.
Il metodo sortisce i suoi primi effetti alla fine degli anni cinquanta e si sviluppa anche nella metà degli anni sessanta con l’intento di portare innovazione nel linguaggio jazzistico e soprattutto per distaccarsi dall’aggressività dell’Hard bop.
Inoltre questo nuovo stile sfruttava scale sostitutive, accordi (svincolati dalla tonalità) costruiti per intervalli di quarta o quinta (anziché per terze, come nella musica tonale tradizionale) e più libertà nel fraseggio.
Primi autori utilizzatori del Novecento furono Miles Davis e Bill Evans, corresponsabile, perché detentore della parte armonica e perché precedentemente lavorò alla corte del pianista George Russell, inventore di questo metodo.
Inoltre Russell ci indica anche John Coltrane col suo lavoro Giant Steps. I voicing vengono sviluppati su poche scale armoniche prestabilite e spostati su di esso, senza “cadenzare” (ricordiamo “So What” e “Milestones”). Le scale non derivano più da alcun sistema, sono indipendenti, ma collegabili tra loro. In seguito troviamo Wayne Shorter come principale compositore ed esecutore di brani modali complessi.
In questo senso si possono usare progressioni tipiche e appartenenti ad un dato sistema scalare; si possono creare collegamenti scalari nuovi, armonizzando più o meno le scale tra loro.
I metodi usati sono i vecchi sistemi di collegamento tra le scale: collegamento tramite un basso comune a più battute o pedale, mentre la parte armonica superiore varia; collegamento tramite il legame della nota caratteristica tra le scale.
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Il modal jazz in pratica
I critici indicano in Kind of Blue di Miles Davis (1959) il primo album modale della storia del jazz, anche se alcuni lavori precedenti già ne preannunciavano la diffusione, come ad esempio Somethin’ Else di Julian Cannonball Adderley (1958, con Miles Davis) e Milestones di Miles Davis (1958, con Cannonball Adderley). Altri album notevoli furono in seguito My Favorite Things del 1960 e Impressions del 1963 di John Coltrane e Maiden Voyage di Herbie Hancock del 1965.
Miles Davis
Kind of Blue
Il 2 marzo e il 22 aprile del 1959 Miles Davis entra in sala d’incisione con il suo sestetto e registra i cinque brani che compongono Kind of Blue” (Columbia). Il sestetto era così composto: Miles Davis, tromba; Julian “Cannonball” Adderley, sax alto; John Coltrane, sax tenore; Bill Evans, piano; Wynton Kelly, piano (appare in un solo brano); Paul Chambers, contrabbasso; Jimmy Cobb, batteria.
So what
Il brano di apertura del disco s’intitola “So What“. La progressione armonica in questo pezzo si semplifica al massimo: 16 misure in Re minore, 8 battute in Mib minore, 8 ancora in Re minore con lunghe improvvisazioni nel modo dorico e costituisce una specie di tappeto sonoro su cui il musicista può espandere al massimo la sua inventiva melodica.
- Introduzione (Bill Evans, Paul Chambers) 0:00 – 0:37
- Esposizione del tema (tutti) 0:37 -1:37
- Assolo di Miles Davis (due chorus) 1:37 – 3:34
- Assolo di John Coltrane (due chorus) 3:34 – 5:23
- Assolo di Cannonball Adderley (due chorus) 5:23 – 7:11
- Assolo di Bill Evans (un chorus, tema in sottofondo) 5:23-8:20
- Esposizione finale del tema e dissolvenza (tutti) 8:20-9:25
Con chorus si intende (soprattutto in ambito jazz e musica popolare) l’organizzazione di un brano musicale in cui lo stesso blocco viene ripetuto più volte (forma strofica). Il blocco che viene ripetuto è appunto il chorus. Questa è la forma della maggior parte delle canzoni folk e moderne. Mentre in alcune definizioni si distingue il chorus dal ritornello, in ambito jazz si indica con chorus l’intero blocco ripetuto (o più genericamente, la parte ripetuta che viene usata dai solisti per l’improvvisazione degli assolo).
La cellula generatrice del motivo è composta da un primo nucleo melodico del tema, la domanda; poi due accordi al pianoforte, la risposta. Il tema è la ripetizione di questa piccola cellula melodica. Soltanto la scala modale di riferimento varierà sedici battute dopo, alzandosi di mezzo tono, poi ancora le ultime otto battute. E’ la forma AABA.
Le strutture armoniche vengono semplificate drasticamente: in So What la successione di accordi è ridotta semplicemente a due, a distanza di semitono, che riempiono zone temporali molto vaste ma ben definite all’interno del pezzo, al di fuori di qualsiasi logica o regola armonico-tonale. L’improvvisazione solistica è libera di svilupparsi melodicamente usando le scale modali abbinate ai due accordi del brano, con il solo vincolo del cambio di tonica (un semitono) corrispondente al passaggio da un accordo all’altro.Il presentare lunghe sequenze di misure accompagnate da un solo accordo è caratteristica tanto comune della musica jazz modale da diventarne, nell’uso comune, la definizione corrente.
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Flamenco Sketches
Altro brano degno di nota è Flamenco Sketches, dove la libertà dei modalismi viene portata all’estremo, con tutti gli strumenti che seguono 5 scale modali di base, le quali inoltre possono cambiare a discrezione del solista di turno (che ovviamente marca il passaggio); l’improvvisatore in questo modo è totalmente libero da ogni convenzione, poiché decide se, cosa, come, quando e quanto suonare.
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John Coltrane
India
Anche John Coltrane (che suonò in Kind of blue) ha sperimentato improvvisazioni modali, basate su scale in cui la tonica resta costante durante tutto il pezzo, ed il contrabbasso esegue un ostinato che la ribadisce (ad esempio il brano intitolato significativamente India).
John Coltrane: Giant Steps
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Herbie Hancock
Maiden Voyage (1965)
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Free jazz e avanguardia
L’approfondimento radicale degli elementi modali introdotto nel jazz porterà alcuni solisti a raggiungere dimensioni sempre più libere e meno convenzionali, sulle orme del sassofonista John Coltrane .
In ogni caso, dopo gli anni settanta, la modalità diverrà parte integrante del jazz contemporaneo, stemperandosi nelle diverse concezioni stilistiche, dal free alla fusion.
Nel 1960 Ornette Coleman utilizzò per primo la accezione di Free Jazz, incidendo, con quel nome, uno storico album nel quale due quartetti contrapposti, partendo da una modalità e da una scansione ritmica predeterminate, improvvisano liberamente svincolandosi, mano a mano, dalle stesse.
Da questo esperimento, si svilupperà una tendenza che, cercando la rottura completa ed incondizionata con quanto fatto in precedenza nel jazz – stili, forme e strutture – cercherà la propria strada al di fuori dell’armonia e della ritmica prestabilite, lasciando al solista unicamente la sua più libera improvvisazione.
Accanto al discorso musicale, ancor più che nel bebop, ancora una volta troviamo la presa di coscienza, l’evoluzione della condizione, la lotta per l’emancipazione del popolo nero.
Un popolo nero che è convinto di dover incidere in maniera netta e determinata nella società americana, troncando definitivamente ogni legame con quella società, fino al suo completo superamento. E’ il periodo dei grandi movimenti neri di Martin Luther King e di Malcolm X.
L’atteggiamento si traduce, in campo musicale, nella demolizione di forme e schemi, nella ricerca delle origini del jazz e nel recupero del gusto, dell’entusiasmo, dell’immediatezza di quelle origini, come nel caso dell’improvvisazione collettiva che diviene momento coagulante della rabbia del singolo, nella rabbia e nel grido collettivo del blackpower.
Oltre a questo, esiste la convinzione del rinnovamento possibile soltanto attraverso il taglio netto con le influenze musicali bianche. La rivolta investe i temi, i ritmi segnati, la tecnica strumentale accademica, visti come elementi di costrinzione alla voglia di gridare la propria liberazione. Insomma, un radicale mutamento di atteggiamento verso la musica.
Se nel be-bop, infatti, l’atteggiamento rivoluzionario si tradusse nella individuazione di nuove forme che esaltassero la trasgressività, il movimento free non ha bisogno di essere trasgressivo, ma di abbattere la forma: non rifiuta il sistema collocandosene ai margini, ma lo combatte, per il suo definitivo annientamento.
Entro i confini del free operarono le più diversificate esperienze, proprio per la necessità di consentire a ciascuno di fare i conti solo ed esclusivamente con la sua sensibilità.
Ovvio che il risultato non può che riflettere tale sensibilità: è apprezzabile quando il solista è artista e gli esempi non mancano: Don Cherry, Cecil Tylor, Ornette Coleman, Pharoah Sanders, Albert Ayler; difetta, quando la mancanza di una progettualità non è neanche adeguatamente supportata da una grande capacità inventiva e comunicativa. Paradossalmente, il movimento free non abbracciò il pubblico nero, tradendo le intenzioni dei musicisti free ed i loro propositi di costituire un terreno musicalmente unificante della cultura nera.
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BIBLIOGRAFIA
- G. Russell, “The Lydian Chromatic Concept of Tonal Organization” (2001)
- R. Miller, “Modal Jazz Compositions & Harmony – vol. I” Advance Music
- Nettles, Barrie & Graf, Richard (1997). The Chord Scale Theory and Jazz Harmony. Advance Music.
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