Antonio De Lisa- L’ostaggio inconsueto (Poesie 2010-12)

Antonio De Lisa

L’ostaggio inconsueto
Poesie 2010-12

 

Insensata allegria d’autunno
nella raffica di gocce
che ritmano sull’asfalto
il respiro della pioggia.

Fornisce una musica nascosta
al silenzio dei vivi tutt’intorno.
Radi e circospetti
Incappucciati.

 

Cenno

Basta un cenno di benvenuto
quando arriva il silenzio
anche se prima l’ho bevuto
in mille gocce d’assenzio.

L’OSTAGGIO INCONSUETO

(I)

Io ti chiamo Poesia,
amante e infine sposa.
Un trattato di metafisica
in sedici versi. Un viaggio

nell’infinito di sola andata,
senza ritorno.
Dopo millenni
fresca come una rosa.

(II)

Avete presente
quando un cagnolino
vi scodinzola intorno
svegliandovi

o anche un bambino
di cui avvertite sulle guance
il contatto del bacio
prima di aprire gli occhi?

Così mi è apparsa
un’idea all’alba
che sto inseguendo
da mille notti.

Nientedimeno che
una “definizione”
della poesia.
Una vocina ripeteva:

“Che cos’è la poesia?
Tutta la musica,
più il senso”. Ora
ci penserò tutta la giornata.

(III)

Quando finisce un verso
finisce il mondo.
Gli “a capo – è vero –
segnano la rinascita,

miracolo di continuità
all’insaputa degli dèi inferi.
Il mondo sembra far da sé,
tesse la sua tela di nodi,

ma quello stacco
di fine verso
è fosso dopo
l’inciampo.

(IV)

I suoni della notte
hanno qualcosa della musica
e qualcosa della casualità
del rumore.

Segnano lo spazio,
scandiscono il tempo,
sono come un’eco
della giornata trascorsa.

Amici che ci trattengono
dall’entrare troppo in profondità
in noi stessi. Ci accudiscono come
cani fedeli. Il silenzio non esiste.

 

Rattrappito

Facile il paragone
-nel giorno del solstizio d’inverno
con il sole a mezzogiorno
allo zenit sul tropico del Capricorno-

coi momenti migliori dell’estate
soffiati appena via e non da poco.
Il freddo rattrappisce
i pensieri e le membra.

Ma qualcosa di buono ce l’ha
anche se con questo freddo
la musica non suscita emozioni
e le notizie non sembrano buone.

Non lo sarebbero forse anche
senza. Condensa la normale
e burocratica tristezza
di vita quotidiana

in grumi che con docile
facilità scivolano via.
Non sembra ci sia tutt’intorno
posto migliore dove stare.

QUI E ALTROVE

Una solitudine di sabbia

Alle cinque del mattino suona l’allarme
nel nostro albergo di Los Angeles,
un falso principio d’incendio.
E’ buio sulla California.

Ne approfittiamo per fumare
nella smoking area fuori l’hotel:
in cinque, tutti arrivati la sera prima,
tutti reduci dal deserto dell’Arizona.

Adunata che sembra un ritrovo,
con negli occhi il ricordo
di quella straordinaria
esperienza. A turno salmodiamo

il mondo attraverso i deserti:
il Sahara, il Sinai, il Negev,
qualcuno anche quelli dell’Australia
e dell’Estremo oriente. Il mondo

raccontato attraverso i deserti,
ciascuno con le sue caratteristiche,
al confronto con la propria
solitudine. Una solitudine di sabbia.

Agave americana

Sto rispondendo qualcosa
mentre mi accorgo
che dal finestrino dell’auto
su una strada della California

si vede un albero di Agave
americana. Questa
pianta ha qualcosa
di familiare, come

una metafora. Si accresce
con gran vigore
per dieci-quindici anni,
quindi fiorisce

un’unica volta e poi muore.
E’ una pianta poetica
e stenta a tollerare
la replica della bellezza.

La chiave d’argento

Ci siamo fermati in un pub
sulla baia e a un certo punto
lei dice qualcosa, ma strascicando
le parole, confuse in una specie

di cappuccino.
“A trent’anni Randolph Carter
perse la chiave della porta dei sogni…”
Non riesco a seguirla,

ma riprende:
“A cinquant’anni disperava ormai
di trovare quiete e appagamento
in un mondo che era divenuto

troppo affaccendato
per apprezzare la bellezza
e troppo smaliziato per sognare”.
Faccio finta di aver seguito

ma in realtà non è così, mi sporgo
per leggere il titolo del libro
da cui sta citando poi capisco,
è H.P.Lovecraft:”La chiave d’argento”.

Radiazione cosmica di fondo

Mentre ascolto una bella esecuzione
della Domanda senza risposta
di Charles Ives, un compositore
americano che amo particolarmente,

fantastico sulla mostra
sui primi tre minuti dell’universo
che ho appena visto a San Francisco.
Un poema dello spazio,

come la domanda senza risposta.
Ci vorrebbe un nuovo Lucrezio
per narrare poeticamente
l’attimo in cui è nato il Tutto.

Tra quindici e venti miliardi
di anni fa non c’era nulla.
Il Tempo Zero segna l’origine.
Ma la cosa interessante

è che non si riesce a capire
cosa sia accaduto
nell’intervallo di tempo
tra il Tempo Zero e dieci elevato

a meno quarantatre secondi
dopo il Big Bang. Gli astrofisici
la chiamano Singolarità.
La mente vibra al pensiero

di cosa possa esserci nel tempo
indicato, come al pensiero
di un infinitesimo e ancora di più
al pensiero dello stato fisico

in cui materia ed energia
erano addensate
in un sistema senza spazio e tempo.
Impossibile, ma terribilmente affascinante:

un buco nero della spazio-temporalità
denominato “Era di Plank”.
Dopo si creano lo spazio e il tempo,
con una sola “superforza”

e dalle dimensioni infinitesimali
e con una temperatura con un dieci
seguito da molti zeri nella Scala Kelvin.
Ovviamente, sull’onda della musica

di Ives, mi chiedo: cosa c’era
tutto intorno? Una domanda
senza risposta. A questo punto
l’universo comincia a espandersi

a velocità elevatissima.
Ma la nostra storia si interrompe
qui, nel primo microsecondo
dopo l’Era di Plank.

Riprendo ad ascoltare
la musica di Ives.
Ma ora so che cos’è
una domanda senza risposta.

DISSOLVENZE

Pulsazioni sincopate

Ti dicono una parola
e diventa un boato, i sussurri
più tenui vorticano di decibel.
Il ritmo lento dell’attesa

scandisce pulsazioni sincopate
lì, nella parte sinistra della testa.
E’ l’ostinata nevralgia
che pullula di eventi insospettati.

Intanto il nome: nevralgia evoca
un tappeto di nervi in fiamme,
un mare di fiammelle
che guizzano caotiche ma a tempo.

Così il poeta immagina la scena
illudendosi di esorcizzarne
l’oscura, elettrica fiammazione,
mentre i medici parlano di freddo.

Ma questa è opera di magia,
magia di rito vespertino:
tutti i giorni alla stessa ora,
come un orologiaio indispettito.

Il ritmo lento dell’attesa
scandisce pulsazioni
sincopate, lì, nella parte
sinistra della testa.

Il mare d’inverno

Nella luce che scheggiava il manto
di neri detriti mi sono avvolto
con pacata lussuria,
con splenetica ingordigia.

Sembravo un cane zoppo
e ansimante; ma solo da vicino,
da lontano potevo anche
apparire un dio ignaro

che accarezza la riva.
Così appare la spiaggia
a chi d’inverno
muove lento i pensieri,

spoglio di desiderio.
Ma a me è bastato il rumore
della forte risacca
per rievocarne il lontano splendore.

L’impassibile notte

Nel deserto di ghiaccio
scricchiolano lusinghe
e gemiti; cristalline
escrescenze lunari

si affilano nelle carni
appuntite e sonore ma calme.
L’impassibile notte
cela lo sguardo, ferma

i gelidi passi
nello stupore incantato
che muta con lo sguardo.
Il cielo non dà segnali.

CRONACHE DI TEMPESTA

Il rimbalzo del gatto morto

Il “rimbalzo del gatto morto”
chiamano in Borsa il parziale
recupero dei titoli, dopo
una disastrosa caduta e il panico generale.

Ma sembra più che altro
di assistere al ringhio
del cane vivo
e a una disfatta colossale

Bisarche e gerani

Nel paese che attraverso alle sette
di mattina tre bar in cinquanta metri.
Il pullman della “Ventre” scarica
operai dello stabilimento SATA

di Melfi, gli operai FIAT,
uno dopo l’altro. Scendono a piccoli
gruppi, qualcuno da solo.
Hanno disegnata sulla tuta la “P” di Punto,

stilizzazione di un guidatore col volante.
Ormai ho capito che quelli che vedo io
sono gli operai del turno di notte.
quelli che in fabbrica entrano alle dieci di sera.

Questa è una regione che d’estate
si veste d’oro, soprattutto nelle valli,
ma ora la nebbia avvolge il paesaggio,
come uno stato d’animo.

Sfrecciano bisarche caricate
con le “Punto” prodotte a Melfi,
e accanto, sulle strade, scorrono filari
di viti ordinatissimi e ben curati.

Quando si attraversa un paese,
Pergola, Paterno, Sasso di Castalda,
si vedono ancora le tendine alle finestre,
con qualche vaso di gerani.

Anche il sottobosco intorno alla strada
è pieno di fiorellini di Gerani di San Roberto.
Una volta si usavano nella medicina popolare
per la medicazione delle contusioni.

E’ tutto sommerso, sotto traccia.
Come nei bar, valvola di sfogo sociale,
un rito, il centro dell’aggregazione,
per giovani e vecchi. La gente va a lavorare

a San Nicola di Melfi, e quando ritorna
scioglie le sue fatiche facendo
battute sulle partite di calcio
giocando a Tressette.

In Basilicata tutto si riassorbe
come l’acqua nella terra.
La Total l’ha bollata con un’immagine:
una regione disantropica.

Io ora sto andando a fare gli esami
di stato ai figli e alle figlie di questa gente,
in paesi simili a quelli in cui De Martino
registrava pietosi, terribili canti di morte

e strazianti lamentazioni funebri.
Come sono questi figli?
Che cosa sanno? In che cosa sperano?
A che cosa ambiscono?

Il petrolio della Val d’Agri

Sono le sette di mattina
quando lancio “Fuel”
nel potente stereo dell’auto.
Tra nebbia, interruzioni,

gallerie lunghissime con luci spente,
fumi di catrame bruciato.
La prima infrazione
la commetto alle sette e trenta.

Ci sono troppi super-Tir
che ingombrano la strada
Potenza-Brienza-Marsico-Taranto.
Vanno a prelevare petrolio

nella Val d’Agri (una delle grandi
valli della Basilicata),
il più grande giacimento
dell’Europa continentale.

Il paese è all’inizio della valle,
laddove il paesaggio bucolico
e agreste si mescola con i super-Tir
che vanno a prendere

il liquido prezioso.
Io porto i Lumi della Ragione.
Loro vanno a prelevare
i Lumi della Ricchezza.

Ricchezza che scorre in mani
di multinazionali lontane,
lasciando sull’asfalto scie
e chiazze di residui oleosi.

Troppo lontane.
Ma io devo fare
il mio dovere,
di fedele servitore dello Stato,

anche se con qualche
piccola licenza
in deroga al codice della strada
e sono già alla terza sigaretta.

Basentana

Sono le solite sette
del mattino. Il traffico
è intenso. Difficile fare
sorpassi sulla Basentana.

Barbe non rasate,
sguardi stanchi, tute chiazzate
di macchie scure,
macchie da meccanici.

La geografia del lavoro
in Basilicata ha qualcosa
di paradossale. Gente che fa
due ore di viaggio

per andare, due per tornare,
più le otto del lavoro. E in turni
sempre diversi. Produciamo
ricchezza con la stessa pazienza

dei contadini di una volta.
Ed enormi sacrifici.
Una vita per strada.
Ma qualcuno dice

che il Sud
è improduttivo.
Un’immensa quantità
di lavoro operaio.

Ma è ricchezza
che scorre.
Altrove.
Lontano.

Il centro della mente

Un po’ li invidio gli indifferenti
non necessariamente rozzi
talvolta anche molto colti e sinceri:
ma indifferenti.

La storia scorre sotto le dita,
tutt’al più un’occhiata distratta
al telegiornale della sera.
Con questo non voglio insinuare.

Solo che il mondo in fiamme
e Wall Street asserragliata
dagli occupanti si situano con spontanea
ferocia al centro della mente.

Il Dio dell’uno per cento

Il Dio dell’uno per cento
in un mondo insaziato
e vagamente insensato
colpisce e si nasconde

in paradisi immanenti
e più prosaicamente fiscali.
Ma i più anticapitalisti son diventati
i redattori dei giornali di destra.

Con una faccia di bronzo
gridano alla dittatura del mercato
e alla calata di brache dei politici
ai banchieri col sigaro e il cilindro.

Bertolt Brecht a loro confronto
era un moderato di centrosinistra
e anche un tantino stronzo.
Noi li conoscevamo come neo-liberisti

alle vongole, reaganiani de noantri,
apologeti ad horas dello smantellamento
dello stato sociale.
Tra spread alle stelle e minacce

di default la contabilità esistenziale
è come un’inflazione di parole
mentre la cronaca ci scuote
e noi ci tocchiamo il portafoglio.

C’è pure chi ci ha guadagnato oggi:
il denaro è pura astrazione.
Il peggio è per chi ha ancora
qualche valore, mangiato dall’inflazione.

Qualcuno ha ordinato
per caso che si passi
da quelli economici
a nuovi sacrifici umani?

Bandiera

In un nubifragio apocalittico
da giudizio divino
-tra incerate e divise inzuppate-
la banda dei bersaglieri

in piazza Venezia a Roma
celebra l’anniversario
dell’armistizio con gli austriaci
suonando e cantando

canzoni patriottiche
con le tre armi schierate
al gran completo
in un mesto sfolgorio

di glorie lontane
“Ma cosa vuoi festeggiare,
povera Italia!”, mormora,
non il Piave, ma il figlio

di un reduce del fronte
con la sua povera medaglia,
“Siamo un popolo bambino,
dal Tevere al Ticino”.

 

Il sole come una fanciulla
alla prima uscita.
Sbatte le ciglia
si inebria di sé.

Al DI LA’ DELL’EQUINOZIO

Una musica senza nome

Le parole fuori circuito,
quelle che non servono più,
senza funzione,
di puro piacere,

di duemila anni
o di dieci minuti appena,
si alzano come
lucciole incantate

su per la collina e formano
a quest’ora una costellazione
di pura bellezza,
una musica senza nome.

Le nuvole scultrici

Il sole è la fonte, ma le nuvole
scultrici. Attraverso il mutevole
loro configurarsi per masse
e filamenti, cirri e cumuli

proiettano sul mare accogliente
figure cangianti e sorprendenti,
aprono e chiudono il diaframma
del cielo. Quello è un volto,

quell’altro un astratto
coacervo; lì un buco nel velo.
A un certo punto offrono a una vela
che solca le acque ignara

del temporale in arrivo il lembo
di un alone di luce. Sembra
che sia la vela ad espanderlo,
come si tira un lenzuolo.

Ma le nuvole sono capricciose,
offrono e negano.
Sono le amanti del vento,
puro spirito di cielo.

La terra, muta e vagamente
in attesa come una trepida
fanciulla, freme nel grigio
azzurrato d’atmosfera

sotto la collina. Accoglierà
quello che le nuvole decideranno
di dare: il sollievo di una falsa minaccia,
lo scorazzare del temporale.

DI UN SOGNO OPPURE L’ALTRO

SOSPENSIONE

Luce di un altro mare

Inquieto,
il suo respiro
cerca il mio
sotterraneo,

umbratile orizzonte.
Sono io
che emergo altrove,
luce di un altro mare.

Sospensione

Mi godo la sospensione
di un’ora senza minuti
nel non-tempo
di un mondo parallelo.

Un’apnea dei pensieri
dove non fa freddo né caldo
dove non si è tristi
né allegri.

E latita la dannazione
dei desideri.
I colori hanno un’apparenza
svagata e insincera

nella zona di confine
tra il giorno e la sera
e i suoni tendono al grave
ma senza intenzione

per forza naturale.
E’ la lenta scansione
dello zero-time.
La quiete dell’equilibrio

il circuito chiuso
dell’oblio
il campo delimitato
dell’addio.

 

L’AMBIGUITA’ DEI SINTOMI

LA RETE DELLE RELAZIONI

Amici lontani

Gli amici vicini li guardi in occhi
che non sempre sorridono.
Quelli lontani non li vedi, li senti.
Immagini le loro parole,

ti dipingi la scena, ti figuri volti e gesti.
Non percepisci il loro timbro di voce
ma li senti respirare dai loro gusti:
un verso, un pensiero, una foto

di un qualche loro sorridente mattino.
Qualche volta vorrei esserci anch’io
laggiù tra il cane
e l’inferriata del giardino.

La grande rete

La webcam come  uno specchio
e noi impigliati nella maestosa rete
esploriamo la quarta dimensione
dove l’apparenza si mischia al vero

in mille posizioni.
La grande rete si tesse da sola
sembra un gioco e scatena rivolte;
la tenebrosa rete acceca e salva:

gestisce relazioni, accelera la storia
sfuma la distinzione tra il sublime
e il banale ma non ce ne accorgiamo.
Basta cliccare per farsi evidenti.

Leniamo le ferite, ordiamo tradimenti.
La webcam specchio di uno specchio.
Simbiosi inquietante
(oltre che comoda e allettante)-

parli con un interlocutore
al di là dell’oceano
ma è come se stessi
recitando un monologo

di Shakespeare davanti
allo specchio del bagno
mentre ti fai la barba. E’come
entrare nell’abisso in pantofole.

Parlare o essere parlato

Ero entrato qui per parlare
col mondo, ma ora sono qui
“parlato” dal mondo.
La notte t’inghiotte.

Cala magra
sapida traente allegria
sbilancia scioltezza canalizzata.
Colpisci l’attenzione di qualcuno?

Non ti mollerà più.
Ne diventerai l’ossessione.
Nosferatu al confronto
Era un dilettante.

Ti intrometti
nel mondo che si intromette.
Musica a palla.
Movida Blog. Chattaggio selvaggio.

E occhio gonfio la mattina.
La significazione scorta
nell’orizzonte secondo
soggiacente

non è meno coerente di
quella che si definisce
nell’orizzonte primo
immediatamente

percepibile.
La conversazione chat.
Intenzione
di inesprimibile.

MUSICA COELESTIS

(I)

Perfetto sull’onda del fiato
senti il suono, tutto un canto.
Volteggia divina e altera,
tocca il piano come furia

e accende la notte e l’amore.
Tasti bianchi, tasti neri.
La musica come un delirio.
Cenni solo a me diretti

si lascia sfuggire talvolta,
madrigali sospirosi,
fraseggio e concerto d’amore
come quelli di una volta

prima di passare
al cospetto
da amante
a spettatore.

(II)

Nello spartito delle emozioni
il musicista modula
con pause e suoni.
Gli basta un “rallentando”,

un “mezzo forte”,
un “andante con moto”.
Ma le parole sono nude
nella lingua senza grafia della poesia.

I CANTI GLI AMORI

Dolce amica canti e amori

Mia compagna canti e amori
dolce amica, bei tesori
da un vita senza inganno
siamo andati delibando.

Ti ricordi quella volta,
eravamo ragazzini,
ci scoprirono una sera
(volevamo farla noi

la scoperta).
E giù le botte.
Ma nel sangue che colava
dal mio naso mi rimase

il sapore malandrino
e inebriante delle tue
cosce.
Dolce amica i canti.

Ora ti seguo.
Lontano.
Anche se famosa,
ti amo.

Mia compagna canti e amori
accendendo i nostri sensi
abbiamo spento
le angosce.

Madrigrale I

Nella vita banale
che scivola e non lascia che ombre vaghe
-infestate di piaghe-
tu, la più viva che mai, immateriale

come un sogno rituale,
rinnovi nel ricordo sensazioni
antiche, che il tempo non ha sbiadito
come un colpo mortale

su insepolte emozioni.
Indeciso se chiamarti,
sfinito
di desiderante invito,

percorro ancora
una volta il tuo seno.
Con te presente
ritorna il sereno.

——————————————

“L’ostaggio inconsueto” è in corso di pubblicazione, in una versione ampliata.

Copyright
Antonio De Lisa 2010-12
Tutti i diritti riservati
All rights reserved



Categorie:C10- Bozze

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