Se si dà un’occhiata a quello che viene pubblicato sotto l’etichetta di “poesia”, non è difficile restare sconcertati per tale abuso. Abuso della parola “poesia”. Con tale termine si intende oggi qualsiasi forma di testo che va a capo arbitrariamente, perlopiù dopo poche parole. Non si scorge una ragione qualsiasi perché ci debba essere lo spazio bianco a fine verso. In realtà non si scorge l’intima necessità di quello che si intende per “verso”. Lo si usa come una stringa qualsiasi di parole. E’ così perché l’autore o l’autrice hanno voluto che fosse così. Per secoli un “verso” ha avuto una sua logica interna, per lo più dettata da ragioni metriche e ritmiche. Oggi, “verso” è un frammento di testo con l’a capo.
Qualcuno potrebbe pensare che sia stato l’influsso delle poetiche d’avanguardia a sollecitare questo arbitrio stilistico. Se si osserva bene, si potrebbe dire l’esatto contrario. Le avanguardie hanno cercato di ridare al verso una pregnanza che si stava smarrendo con l’abuso di forme tradizionali. Si pensi A Zanzotto o a Sanguineti. Mai verso poetico ha ricevuto tanta attenzione. In quei casi era la reinvenzione del linguaggio che spingeva alla deformazione del verso. Un intero mondo linguistico rinnovato si apriva creandosi una propria forma.
Oggi non si scorge più nessuna tensione. Il lessico oscilla fra una piattezza assoluta a un’oscurità iniziatica scoraggiante. Quindi il verso è diventato un mero contenitore. Se si sciogliessero gli argini e si lasciasse scorrere il testo di continuo potrebbe sembrare un qualsiasi testo in prosa (con qualche errore sintattico).
Si è perso il ritmo interno della poesia. In Caproni, per esempio, il ritmo è tutto. La maggior parte delle poesie di oggi mancano di ritmo poetico, non vanno avanti, una parola succede a un’altra. Sono per lo più parole di amori frustrati, letterine di puro sfogo esistenziale, privato, dolente, languoroso. Certamente sentito, ma assolutamente incomunicabile. Manca la trasposizione in arte. Come se la poesia non fosse una forma d’arte, che richiede una certa sapienza artigianale, un pensamento e ripensamento continuo dei più piccoli dettagli. Basta scrivere – secondo l’opinione di questi autori- e salta fuori la poesia. In realtà quello che salta è una forma di autismo narcisitico: non so che dire, ma guardate che lo dico…
Non ho certo l’intenzione di riportare indietro l’orologio della storia, esaltando forme poetiche antiquate. Questo assolutamente no. Ma un ripensamento della poesia come una forma d’arte, che richiede precisi accorgimenti nel dominio del linguaggio, questo forse non guasterebbe. Una parte dell’ispirazione poetica la si possiede d’istinto, ma il labor limae si impara. Lì interviene l’ars, l’arte, e anche il pudore di offrire a chi legge qualcosa che è il frutto di un’opera d’arte, piuttosto che una letterina scritta in un momento di malumore.
I critici, purtroppo, sono scomparsi. Le recensioni poetiche sono scritte da poeti (o poeti-giornalisti) in cambio della restituzione del favore alla prima occasione. Una conventicola di incensatori free-lance. E quindi nessuno “critica”, osservando quello che è oggettivamente debole in una raccolta poetica. Manca l’educazione al gusto. In un contesto senza valori, perché dovrebbero essere negati a qualcuno i suoi quindici minuti di celebrità?
A.DeL.
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