Antonio De Lisa – Semiotica della ripetizione. Echi rifrangenze e ritorni di musiche che nascono da altre musiche

“In forme diverse, l’appropriazione e la manipolazione di materiali preesistenti è una prassi che attraversa tutta la storia della musica, dagli antichi procedimenti di tropatura alle composizioni polifoniche su cantus firmus, dal contrafactum alle parafrasi su temi d’opera, alla forma della variazione, portata ad esiti radicali proprio nell’Ottocento (…) Ma è nel Novecento che la raccolta e la riutilizzazione di materiali del passato ha dato i suoi frutti più interessanti, traducendosi in fenomeni di ibridazione, di plagio, nella poetica (mutuata dalle arti figurative) del collage e dell’ object trouvé, in un gusto caustico e provocatorio che ha contrassegnato molte esperienze dell’avanguardia musicale (ad esempio nel linguaggio corrosivo di Mauricio Kagel)”.[1]

Manipolazione e appropriazione si esprimono egregiamente attraverso procedimenti variantistici, campo in cui eccelle Brahms. Prendiamo le sue variazioni in fa diesis minore su un tema di Schumann (op. 9), nate sotto il segno degli Studi sinfonici di Schumann o le Variazioni su un tema di Händel (op. 24). Consideriamo infine le Variazioni su un tema di Haydn (1873). Brahms entrò in contatto con il musicologo K.F. Pohl, dopo il  trasferimento a Vienna nel 1863. Quest’ultimo stava lavorando alla monografia su Haydn. Tra i manoscritti attribuiti a Haydn in suo possesso, Brahms trovò una raccolta di sei Divertimenti per strumenti a fiato. L’Adagio del sesto, che porta il titolo “Corale di Sant’Antonio”, venne utilizzato per questa composizione, la cui prima versione è per due pianoforti. Studi musicologici successivi hanno messo in dubbio la paternità di Haydn circa questo tema. Noi dobbiamo por mente al legame ideale che si crea tra il Brahms difensore della tradizione e il padre del classicismo viennese. Un omaggio che è un emblema.  La variazione finale è costruita in forma di passacaglia ed è basata su una frase di cinque battute ricavata dal “Corale di Sant’Antonio”, che viene ripetuta continuamente con le più diverse armonizzazioni, sino a sfociare in un episodio fugato, che eleva il tema in una regione di grandiosità monumentale.

Veniamo a Debussy. “Io cerco di dimenticare la musica in quanto essa ostacola la mia comprensione di quello che ancora non conosco, o che conoscerò ‘domani’… Perché legarsi a quel che si conosce anche troppo?” [2] E’ Debussy a porci la domanda, in un brano del suo Monsieur Croche antidilettante. In un certo senso la faccenda si pone in maniera sostanzialmente diversa. Infatti, “se alcuni decenni prima con Brahms era nata la coscienza storica del musicista, in una manipolazione sapientissima del materiale sonoro, con Debussy nacque la critica alla storia stessa, la critica all’idea di cultura, di razionalità, di progresso, in un pensiero parallelo a quello di un grande filosofo: Freidrich Nietzsche”. [3]

Nell’opera di Claude Debussy possiamo osservare tutta una serie di procedimenti compositivi. Chiare sono le influenze modali antiche, come si possono vedere nella sua Cathédrale engloutie. Inoltre Debussy si serve di vari meccanismi per riorganizzare dall’interno il sistema di tensioni sui gradi della scala diatonica. Per esempio utilizzando una scala di toni interi, che divide l’ottava in sei toni, come nella successione Do, Re, Mi, Fa diesis, Sol diesis, La diesis, Do. Oppure una scala pentatonica, come si può vedere nel preludio per pianoforte La fille aux cheveux de lin o in Pagodes.

Chiari sono anche gli influssi esotici, riprendendo una tradizione che ha il suo apice con le “turcherie” del XVIII secolo. “Per non citare che i noti, musicisti come Marin Marais (“Les Pagodes” in Piéces de viole, 1725) o François Couperin (“Les Chinois” in Quatriéme livre de Pièces de clavecin 1730), senza alcuna nozione sulla musica cinese, usano l’allusione alla Cina per inserire nella propria compatta compagine formale irregolarità ritmiche o melodico-armoniche. Operisti come Henry Purcell (The fairy queen, 1692), o Jean Philippe Rameau (Les Paladins, comédie-ballet 1760) – e i loro librettisti – si interessano di Cina soprattutto alla ricerca del fiabesco, dell’esotico, dell’incognito, un mondo irreale di cui vengono presentati caratteri i più strani e grotteschi (si veda la danza della scimmia nel chinese divertissement di Purcell). Il genere è appunto quello del divertissement, che rivela l’attitudine di prevalente disinteresse alla comprensione di una cultura altra; il bisogno di elementi nuovi e decorativi si manifesta all’interno di strutture non essenzialmente messe in discussione e i materiali vengono liberamente usati”. [4]

Come scrisse Rostand, “il fenomeno d’orientalizzazione della musica occidentale [fu] iniziato più o meno istintivamente da Debussy”. Claude Debussy conobbe la musica orientale, soprattutto giavanese, all’Esposizione Universale di Parigi del 1889. Scriverà più tardi: “La musica giavanese osserva un contrappunto accanto al quale quello di Palestrina non è che un gioco da ragazzi. E se si stesse ad ascoltare at-tentamente, spogli da ogni pregiudizio europeo, il fascino della loro “percussione”, si sarebbe costretti ad ammettere che il nostro non è che un barbaro suono da circo ambulante. […Essi possiedono] un istintivo bisogno d’arte, l’ingegno da soddisfare e un’incredibile economia di mezzi”.

In ambito armonico Debussy tende a considerare l’accordo – nuova sintesi tra “Natura e Immaginazione” – come un’entità a sé stante, rallentando il ritmo armonico con una conseguente entrata in crisi delle concatenazioni accordali tradizionali. Le melodie del compositore francese sono composte da frasi frammentate, di cui ciascun pezzo viene ripetuto più volte. In ambito ritmico si perde la sensazione della pulsazione re-golare, sostituita da un fluire indipendente da un punto all’altro. Tutto questo ha una ricaduta sui processi formali, all’interno dei quali entrano in crisi le architetture classico-romantiche. Le cadenze si fanno meno accentuate sfumando tutti i punti di passaggio e di incrocio. Molto importante di Debussy per le influenze che eserciterà sui compositori successivi è Jeux. Dirà Debussy: “Volevo ridare alla musica una libertà che essa contiene forse più di qualsiasi arte, non essendo limitata ad una riproduzione più o meno esatta della natura, ma alle corrispondenze misteriose fra la Natura e l’Immaginazione”. Siamo a casa ma non sembra più di esserci. Non riconosciamo più gli oggetti familiari. Abbiamo una sensazione di perdita e di smarrimento. L’aspetto inquietante di una nuova cartografia di luoghi noti, divenuti irriconoscibili, porta immediatamente ad un’accentuazione delle potenzialità latenti nella materialità rispetto alla forma.

Nella musica moderna da un lato troviamo Stravinsky. L’estetica neoclassica del compositore russo impregna le Sinfonie per strumenti a fiato (1920) fino a culminare nell’ Oedipus rex (1927), in Apollon musagète (1928), Sinfonia dei salmi (1930), Perséphone (1934), Orpheus (1947). Nel 1950 viene presentato The Rake’s Progress (La carriera di un libertino), poco prima che lo stesso compositore decidesse di operare una nuova svolta nella sua carriera accostandosi al metodo di composizione con dodici note.

Col classicismo stravinskiano si pone di nuovo in primo piano il ricorso a forme musicali pure, come la sinfonia, il concerto, la sonata e la musica da camera per formazioni canoniche. Sono tutti “omaggi allo spirito”, come la Sinfonia in Do, omaggio allo spirito di Haydn e di Mozart. Talvolta ci si spinge più indietro coltivando le forme del periodo cosiddetto barocco, come la suite, la toccata, il concerto grosso, il divertimento, la fuga, la passacaglia, la ciaccona.

Nel caso di Alfredo Casella si tratta di un aperto rifiuto delle inquietudini della crisi musicale europea con la parallela affermazione di una musica italiana fatta di equilibrio tra le esigenze moderniste e le costanti formali e linguistiche della tradizione musicale nazionale. Tra i primi lavori ad innalzarsi a manifesto di questa tendenza è la sua Scarlattiana, divertimento su temi di Domenico Scarlatti per pianoforte e trentadue strumenti (1926). Si tratta di una “musica al quadrato” secondo l’accezione del Pulcinella stravinskiano, declinata in versione nazionalistica. Mentre la questione si pone in termini radicalmente diversi nella prospettiva di Bartók, specie in riferimento alle sue musiche basate su tradizioni orali. Come si vede, una stessa preoccupazione può essere coniugata in termini assolutamente differenti.

Dall’altro lato – e su un piano diverso – troviamo il compositore americano Charles Ives. Qualche critico ha parlato del particolare realismo di questa musica, che non ritiene indegno rappresentare le esperienze di ogni giorno, di tipo sportivo, legate alle festività, o illustri , come la scena familiare rappresentata dal movimento “The Alcotts” della sonata Concord. C’è un fecondo intreccio, nell’arte democratica americana, tra spinte costruttive e spinte pragmatiste, che porta a una dura messa in discussione della concezione europea dell’arte, “colpevole di aver rinchiuso l’arte in una riserva, generando una frattura fra l’arte ‘nobile’, accessibile soltanto a pochi eletti, e la prassi estetica quotidiana che non veniva affatto compresa come tale né da questi ultimi né ‘dall’uomo medio di oggi'” (Schneider).

Block ci ha fornito recentemente un ampio panorama dei “prestiti” della Concord (Block 1996). Si va dalla quinta Sinfonia di Beethoven alla Sonata “Hammerklavier” (op. 106), all’inno Martyn (“Jesus, lover of my soul”) di Simeon B. Marsh, con tutta una serie di “prestiti” dubbi, come quello della seconda Sonata di Brahms op. 2 e della nona Sinfonia di Schubert; questo solo per citare i “prestiti” ricorrenti in tutti e quattro i movimenti. Ce ne sarebbero decine di altri isolati nei singoli movimenti.

Questo rifiuto della separatezza tra arte colta e vita quotidiana arriverà fino a John Cage. In una concezione dell’arte come esperienza non ci sarà più spazio per una distinzione tra musica e non-musica, suono e silenzio.

Su un altro versante ancora è da collocare Albarn Berg. Secondo un programma segreto steso dallo stesso compositore, il Concerto per violino e orchestra (1935) rappresenta il ritratto di Manon Gropius, figlia diciottenne di Alma Mahler: al ritratto segue la catastrofe, l’accettazione della morte e la sua trasfigurazione. La serie dodecafonica si presta in modo evidente ad evocare ambiguità tonali, perché le prime nove note, tutte a distanza di una terza, possono formare accordi maggiori e minori. La successione delle ultime quattro note coincide con l’inizio della melodia del corale “Es ist genug! So nimm, Herr, meinem Geist”, citata da Berg all’inizio dell’Adagio nella elaborazione di Bach (dalla Cantata BWV 60 0 Ewigkeit, du Donnerwort). Su questo tema Berg sviluppa, nella coda del brano (Molto adagio), un andamento cantabile che recupera per intero la serie dodecafonica del concerto. Accanto a questa importante citazione ne va ricordata anche un’altra, di una melodia popolare carinzia (“A Vögale af’n Zweschgn-Bam”: un uccellino sul prugno), che appare in passi di sapore mahleriano alla fine di entrambi i tempi.

Per avvicinarci ai nostri giorni si possono citare due casi. Aldo Clementi ne L’orologio di Arcevia, realizzazione strumentale della suoneria di un orologio da campanile, per complesso da camera (realizzato alla Biennale di Venezia nel 1979) realizza un canone circolare a 24 voci il cui materiale è costituito dalle prime quattro note del primo tema del finale della Sinfonia K 551 di Mozart, presentate in tonalità diverse: si tratta quindi di un materiale polidiatonico, secondo una scelta tipica di Clementi.

Uno dei casi più celebri è rappresentato da Sinfonia per otto voci e orchestra di Luciano Berio (1968-69), in cui si assiste a una proliferazione di riferimenti e di allusioni musicali. La terza parte costituisce il centro e anche il modello di tutto il lavoro: essa fa proprio lo scheletro dello Scherzo della Sinfonia n.2 di Gustav Mahler che appare e scompare, intrecciato e trasformato da richiami a Bach, Beethoven, Brahms, Berlioz, Boulez, Wagner, Schönberg, Berg, Debussy, Hindemith, Stravinsky, Ravel, Strauss, Stockhausen, Pousseur, Globokar. Come ha avuto modo di dichiarare lo stesso Berio “citazioni e riferimenti sono stati scelti in funzione non solamente dei loro rapporti reali ma anche in virtù dei loro rapporti potenziali con Mahler, che è qui per la totalità della musica quello che Beckett è per il testo”. Viene infatti utilizzato parallelamente un testo di Beckett.

Anche nella musica più vicina a noi nel tempo, infatti, si registrano diversi casi di appropriazione e inglobamento di musiche proprie (si pensi alla complessa questione della variantistica interna maderniana) e altrui, di rifacimenti stilistici, procedimenti parodici, collages, autocitazioni, palinsesti, fino ad arrivare alla furia concettuale delle cadenze mozartiane di Sciarrino.

Su un altro versante, di appropriazione ad uso colto della musica leggera, possiamo ricorrere a Parodia di Lorenzo Ferrero, per ensemble di quattordici strumenti (1990), poi anche in versione per orchestra. Il pezzo è un rifacimento molto di un pezzo dei Depeche Mode, dall’album Music for the masses (1987). Potremmo anche ricordare l’inserto “a mo’ di rock” per quartetto d’archi nella Canzone di Greta (1987) e la parodia di Sympathy for the devil dei Rolling Stones in Faust. Un travestimento (1986-90) di Luca Lombardi.

Note

[1] G. Mattietti, Nota di sala in “Chopin”, Amici della musica di Cagliari, 2000, p.14.

[2] C. Debussy, Monsieur Croche antidilettante, trad.it. Il signor Croche antidilettante, traduzione e note di Luigi Cortese, SE, Milano 2000.

[3] P. Repetto, Il sogno di Pan. Saggio su Debussy, Il melangolo, Genova 2000, p.45.

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[4] L. Galliano, “Influssi giapponesi sulle avanguardie musicali occidentali”, in Sonus-Materiali per la musica moderna e contemporanea, Fascicolo 20, Dicembre 2000, p. 97.

Antonio De Lisa

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