Antonio De Lisa- “Ritmi urbani”- Poesie 1990-2010, Manni Editori, Lecce 2011
“Un’ampia partitura in sette movimenti preceduta da un preludio racchiude una raccolta poetica che si legge come un itinerario della mente e del cuore. Lo spartito è vasto e delinea un percorso di cronache, esperienze, luoghi, passioni in un impasto di lingua e ritmo che coinvolge.” (Dalla quarta di copertina)
“Il poeta crea in maniera pericolosamente simile agli dei. Il suo canto costruisce città; le sue parole hanno quel potere che, su tutti gli altri, gli dei vorrebbero negare all’uomo, il potere di attribuire una vita duratura.”
George Steiner, Linguaggio e silenzio
Questa raccolta è formata da un Preludio, sette Movimenti e un Commiato
PRELUDIO
L’acqua scorre lentamente, invocando la misura e la dignità dal silenzio, nella rallentata mediocrità della notte.
PRELUDIO
Le cose si dispongono in base a proprie leggi, in un modo che chiamiamo naturale e di cui è difficile scorgere la giusta prospettiva culturale, se non per l’intuizione di un attimo. Sul far della sera, di notte, alle prime luci dell’alba. Nelle pause di un percorso docilmente erratico. Poi il sonno. Come un frutto. Ecco il mio ruolo, lettore, che ti recito.
Sezione Prima
RICHIAMI E MALIE
Come in un paesaggio di rovine saggio lentamente il terreno che accudisce le lente acque del fiume.
Immagini si distaccano rapide e irregolari da un libro sfogliato dal vento. Sentono il richiamo.
VERSI PER VERSI
Non ci sono versetti satanici all’orizzonte ci vuole troppa religione. Si può solo andare lenti e solenni verso per verso lungo il silenzio di una quieta disperazione.
POESIA CIVILE
Ormai l’indifferenza è più forte di qualsiasi passione civile e siamo rimasti in una moltitudine di pochi a gridare la speranza ma con la morte dentro il cuore nell’eterno paese senza rivoluzione nell’eterno paese che muore.
STRADA IN SALITA
Il pensiero poetante e la poesia pensante percorrono strade inconsuete e fanno scandalo. Poesia e filosofia come una rincorsa in salita. Là dove altri vedono una contraddizione io vedo la vita.
Adoro l’intelligenza, mi commuove la passione della vita, soprattutto quando vedo giovani che si cimentano col mistero, allora cade la stanchezza e parlerei all’infinito di poesia e filosofia. Ragazzi, non finisce la salita.
RAMO STORTO
Il passato rincorre il futuro come un’onda, è il presente che è un ramo storto senza direzione.
LABILE TRAMA
Come un sussurro attraverso un pezzo di carta una poesia d’amore s’insinua nella labile trama della nostra indecisione, per dare voce alle parole che conosciamo e silenzi a quello che non conosceremo.
LONTANO
UNA SIRENA
Conosco una sirena che canta solo di nascosto. La sua è come un’immagine che nell’acqua sorella dell’aria si muove rapida e appare solo a tratti, come un’illusione ottica. Ma io sento il suo richiamo, come un silenzio che mi parla piano. Vorrei avere il suo nome e il volto di nessuno nella notte che mormora lenta.
LA PIÙ INTERESSANTE IN QUESTO MARE
Indovino il suo momento dalla canzone che mette, lei gioca con le interpretazioni come un’ermeneuta, sa che navigare al largo è il modo migliore per raggiungere la mèta, ma dietro il gioco s’indovina una segreta eleganza, non un vezzo di sciocco snobismo tra esserci e non apparire, fra buttarsi e poi sparire. A me piace parlare in poesia, a lei con le immagini tra parole solo suggerite e non dette, cultrice del segno esatto, della semiotica immaginosa e creativa, esperta nella sintassi dei silenzi, nella grammatica delle citazioni. Sirena, sirena delle mie trame il mistero alimenta le nostre brame, ma in realtà sappiamo tutto di noi anche quello che a noi stessi si cela e che agli altri si svela. Siamo navigatori dalle opposte tendenze, lei al largo solitaria io sottocosta e sotto gli occhi di tutti. Ma sono le stesse trame che si stendono lucide come i fili di una tela di ragno, una rete nella grande rete. Il mistero non più tale è che queste navigazioni sono lontane ma anche segretamente appaiate, lo si indovina dalle citazioni afferrate a volo, dalle letture, dalle musiche sentite, dai giochi di senso condiviso, dalla semantica degli oscuramenti allusi. E non si resta delusi. Io indovino, lei sirena che parla per enigmi e che talvolta dice anche cose pericolosamente comprensibili come quando titola un suo video “Lied dich” giocando sul liebe dich di una più celebre frase, che di solito si pronuncia sussurrando sulla spiaggia al chiaro di luna e non in mare aperto e in notti oscurate dal silenzio. E’ una sirena, ma vorrebbe cantare come un angelo, ma questo guai a dirglielo, si sentirebbe offesa nel suo lato creativo. Tu, la più interessante in questo mare, mi ispiri da morire senza sapere chi sei.
IL DRAGO, UTOPISTA MALINCONICO
Dicono che il Drago rappresenti la forza e la brutalità degli istinti primordiali,
la notturna potenza
delle passioni viscerali.
Dicono e ridicono.
La lotta col Drago
è un titolo d’onore.
Si vince e si perde,
ma senza sapere cos’è l’amore.
Dicono, scrivono e dipingono.
E’ l’incarnazione del demonio.
Va schiacciato come un verme,
trafitto, umiliato.
Senza conoscerne le ragioni.
La ragione del Drago.
Il Drago coltiva nascoste utopie,
dolci speranze,
carezzevoli, umanistiche prospettive,
ma si sente incatenato.
E’ un Drago che è pronto a sfidare,
ma vive in grande malinconia.
Provate voi ad averne la potenza
senza poterla usare.
L’ANGELO STERMINATORE
Che strano Angelo
ha bussato alla mia porta,
sembrava uno sbandato,
la chitarra al collo
la faccia da cantautore.
Abbiamo scambiato due chiacchiere,
l’ho fatto entrare.
Dimmi di te, Angelo,
perché ti sei ridotto
in queste condizioni?
Non mi lamento, qualcuno
mi voleva irregimentare,
ma io non lo voglio più fare
l'”Angelo sterminatore”,
sterminerei chi dà certi ordini.
Non ti vedo bene, però.
Mi sembri strano, forse digiuno.
No, no, sto benissimo, lavoro
in un “Parco mitologico a tema”.
Non sono più portavoce di nessuno.
LA DANZA DELLE NINFE
Tra le Ninfe che danzano
me ne piace una
ma non la trovo mai.
Ho chiesto alle amiche.
Perché quella Ninfa non c’è?
Io è con lei che voglio ballare.
E’ in punizione, mi hanno risposto.
Non vuole cantare in coro.
Ha strane idee, rivoluzionarie.
Non le piacciono le cose
che piacciono ai più.
Si rifiuta perfino di guardare la tivu.
SORELLA MALINCONIA
Vedi, io forse ti devo chiedere scusa.
-Di che?- mi chiederai.
Ho qualche esitazione a dirtelo.
Qualche pudore malcelato.
Scusa, sorella Malinconia,
per aver cercato di cacciarti
via da casa mia.
Ma era l’altra che mi aizzava,
l’altra mia sorella, la Passione,
che non ti amava e non ti ama,
lei non ama la depressione,
lei ama il furore, la grinta,
la sete di vittoria.
Stolta, lei non pensa, agisce.
Lei non ti ama.
Ma ho notato che tu
non nutri disprezzo,
forse è un vezzo
di educata sororanza,
sororanza verso di me,
io a voi comune,
con due sorelle
che splendono come stelle
nel mio firmamento.
Ma mi sembra che il momento
sia giunto di non fare una scelta,
quieto ai vostri desideri,
leggero come il vento,
che ubbidisce solo al momento.
Vieni, sorella.
Vieni a me, sorella.
Vieni, vieni.
MILLE ONDE
Le mie radici sono nel mare,
trasportate
dalla corrente.
E’ l’onda che mi muove
come un tappo di sughero
nel vortice dei flussi.
E’ l’onda che mi spinge
lontano dal presente,
verso un altro tempo.
E’ l’onda del tempo
che mi fa accarezzare
le brezze di un altro mare.
E’ l’onda che mi sussurra
di tornare tra la gente,
lontano dal sepolcro
delle false apparenze.
E’ l’onda che mi sussurra,
come in un’eco di sirene,
la necessità di andare,
anche se la mèta
conta meno del viaggio.
L’onda canta
con dolcissime parole
la strada del pellegrinaggio.
L’onda indica
forse il luogo
del ricongiungimento.
Forse è solo una chimera, il richiamo
di un’altra èra, ma è l’onda
che mi spinge verso il naufragio.
PARCO MITOLOGICO A TEMA
Nel mio “Parco mitologico a tema”
c’è un Drago utopista malinconico,
che rimpiange passioni lontane
e dalle idee politiche impresentabili.
Esso rappresenta il Fuoco che annienta.
Vi abita laggiù negli abissi
una bellissima Sirena,
dalla malìa irresistibile,
che canta solo di nascosto
perché si vergogna,
e si muove rapida e appare
solo a tratti, come un’illusione ottica.
Essa è l’Acqua che nutre e divora.
C’è una Ninfa ribelle
che si rifiuta di cantare in coro
e di danzare in cerchio
e non vede nemmeno la tivu.
Ella rappresenta la Terra feconda.
Anche un ex Angelo sterminatore,
che ora fa il cantautore,
ora vi si è sistemato,
ha rinunciato a sterminare
e non è più né sicario,
né portavoce di nessuno.
Egli è l’Aria, libera e pura.
E poi c’è lei, sorella Malinconia,
e l’altra mia sorella, la Passione,
che non ama la depressione,
lei ama il furore, la grinta,
la sete di vittoria.
Questo parco è la mia natura.
L’AMORE E L’ODIO
Della verità dell’universo
sono in molti a predicare,
e quella dell’anima si rivela
nel mio percorso giornaliero.
Quello che non arriverò
a capire è il mistero
della concordia
e della discordia
tra gli esseri umani,
come l’amore e l’odio.
Una specie di buco nero.
Insondabili.
SENSI E NON SENSI
L’appagamento dei sensi
non produce che noia.
Offenderli, l’infelicità.
Quello che c’è in mezzo
è la spira di un serpente,
in mezzo alla quale mi muovo.
UNA GIOVANE DONNA AL DI LA’ DEL MARE
UN GIOVANE DONNA AL DI LÀ DEL MARE
La sua bellezza è nascosta da un velo
e abita al di là del mare
non può mostrare il suo viso,
che è troppo bello e in quel paese non si può.
Mi piacerebbe vedere i suoi occhi
quando mi parla attraverso la rete
ma le è proibito parlare con uno straniero
attraverso una telecamera invadente.
Mi ci devo abituare,
ma quello che dice
è di una dolcezza infinita,
non importa che il suo viso mi sia celato.
Si chiama Imène,
che in arabo significa fede.
Le ho dedicato una canzone,
ma questa dedica ho dovuto
farla a una giovane donna
che non ascolta musica da sette anni.
Non poteva ascoltare quella canzone,
non poteva ascoltare nessuna canzone,
anzi nessuna musica in generale,
e forse alla fine non ascolta nemmeno se stessa.
Ma io credo di si,
anche se cita il Corano,
credo di si, e mi riempie di tenerezza
il suo segreto di donna celata alla vita.
Ogni tanto mi fa domande del tipo:
“Perché il cielo è blu?”
E forse vorrebbe da me una riposta accurata,
ma io ribatto con un’altra domanda,
non intima, ma di un altro orizzonte
e lei qualche volta risponde e qualche volta no.
Abita in una città del Nord Africa, Imène,
e dice cose dolci come il miele,
ma senza volerlo, e intuisce
l’arcano di una comunicazione tra due mondi.
Intuisce perché rispondo in modo strano
alle sue domande, e cita la maledizione mia
e di altri come me: “c’est ton soi qui cherche”.
E’ il tuo “sé” che cerchi.
“Mon soi”, il mio sé e allora le chiedo
in un sussurro da lontano
e velato da una malinconia parallela alla sua
che cosa sia per lei il sé e lei risponde:
“L’espace entre le soi et le non soi”,
lo spazio tre il sé e il non sé.
Mi piace questa risposta,
mi ricorda qualcosa,
non so cosa ma mi consuona nella mente
come un lontano mistero arcano.
E’ bello ciò che abita
al di là del mare,
spazzato dalle correnti,
di un lontano sentore.
Lei abita al di là del mare,
una giovane donna di ventitre anni,
studentessa universitaria
di biologia e di letteratura francese,
giovane donna innamorata del suo
più grande sogno, vedere la kaaba, alla Mecca.
Forse è un sogno grande,
ma non ha conosciuto l’amore.
IMÈNE E LE ONDE DEL VENTO
Le ho chiesto
di immaginare
un giro in moto
sulle bollenti
strade del Nord Africa,
col vento
che ci scompiglia
i capelli e il sole
che ci brucia la pelle.
Imène, però, porta l’ijiab,
il velo islamico.
Ma, pur parlando
con differenti
voci e vedendo
diverse luci
non è stato difficile,
con gli occhi
della fantasia
e della poesia,
immaginarci
i lembi
del suo velo
distendersi
al vento
come onde,
conservando
e custodendo
il suo prezioso tesoro,
e lambendo
bianche spiagge
di sogno,
col mare
in lontananza
che ci sussurra
il suo richiamo.
Viviamo
in differenti realtà,
in sistemi
di differenti religioni,
siamo di differenti
generazioni,
ma abbiamo
miracolosamente
la stessa sensibilità,
siamo fatti
della stessa essenza.
Quel che la religione
divide, l’amicizia unisce,
sotto lo stesso sole,
sotto la stessa luna.
Lì, su quella moto
che ci fa volare
come angeli,
pur con pensieri
differenti e differenti visioni,
pensiamo
per un attimo
le stesse cose.
Gli angeli non hanno
bisogno di parole.
PARTITA A SCACCHI CON IMÈNE
Io e Imène ormai parliamo
il rischioso linguaggio dei simboli,
in cui si mischiano a dosi alterne
intelligenza e poesia, ragione e purezza.
Stiamo disponendo i pezzi
di una grammatica psicolinguistica
sulla scacchiera del nostro singolare
rapporto umano.
La scacchiera è ferma al centro del quadrato.
Imène gioca col bianco, io col nero.
Il suo bianco è come un velo,
il mio nero è più profondo del mistero.
Tocca a me aprire, la mossa più difficile:
muovere i pezzi prefigura
la dinamica dell’essere,
il suo incessante divenire.
Una mossa sbagliata ci costringerà
a faticose rincorse,
e a disastrose riconquiste,
ma saremo forse sufficientemente delicati
a vicenda per non farcelo pesare.
Nessuno di noi si alzerà dal tavolo
dal gioco rovesciando i pezzi.
Imène fa una mossa, astuta,
mi ero incantato a guardarla,
come si guarda la vita o la morte
e mi ha fatto saltare l’alfiere.
Il bianco di Imène simboleggia la fede,
il mio nero il senso di inquietudine
e di mistero che esprime il mio
sempre travagliato rapporto col mondo.
E fede in arabo si dice Imène.
Fede? Ma che cos’è la fede?
Fede nei confronti di chi?
A ventitre anni si può essere
così fedeli da rinunciare
alla propria identità?
Ora quello di Imène è un assedio,
sono più volte sotto scacco.
Riesco a stento a parare i colpi.
E’ il movimento della sua mano che m’incanta,
ha una geometria segreta, rapida ed elegante.
La fede di Imène è il controcanto
della mia corrucciata erranza,
la stabilità di Imène è il controcanto
del mio senso del rischio e dell’altrove.
Le ho fatto vedere delle foto:
Imène ha scelto una rosa rossa,
che nel nostro lessico simbolico
è un simbolo di fedeltà, non di passione.
E ora m’accorgo che sta vincendo
lei la partita.
mi ha dato scacco.
Sezione seconda
MARGARET. COME UNA STORIA
RITMI URBANI
Sogno su vecchi depliants di viaggi in Cina
mentre Jane legge vecchi romanzi di Barbara Pym
nella cucina in affitto di Winterwell Road.
Si pente d’aver toccato quel tasto
nella nostra solita lite di poco fa.
Esce in una macchina come uno scarafaggio nero.
Sono solo ora nella casa sonora come uno schiaffo.
Nella notte la nebbia avvolge il giardino
in una favola cisposa.
Accumulo fogli, vecchi lieder viennesi,
dialoghi drammatici di Rosvita di Gandersheim,
fumando senza voglia.
La mia mano traccia segni sulla carta,
raspa, s’impiglia, gratta,
come la chiave nella toppa.
E’ tornata Jane, ma non è sola.
Sdraiati sul tappeto del Nepal
succhiamo caramelle alla vaniglia,
sussurrandoci distratte memorie d’amore
scandite dal tempo dell’orologio idraulico del salone
antiquato come una menzogna.
E’ dolce metter la briglia
a vanità dimenticate,
sussulti d’orgoglio,
velleità sprecate.
Jane si distende come un gatto annoiato,
un po’ arrabbiato
a tratti, languido felino in agguato
e Margaret intimidita.
Risaliamo la reggae-pulsante Brixton Hill…
per rischiare la vita, una vita da orso, basta un niente.
La città è un campo di macerie,
ronza nella notte con respiro irregolare,
luminosa come una macelleria;
tra un’ora e l’altra c’è sempre movimento:
caffè in bicchieri di carta,
pettegolezzi e shampoes mentali.
La città è un campo di macerie.
E’ sporca, ma sembra felice delle sue vetrine tirate a lucido.
Una pioggerella vanitosa
spolvera interminabili
menzogne in brevi note,
come una canzoncina fastidiosa.
Nella nebbia incombente
gli umani assistono ai miei combattimenti
d’amore in sogno…
d’amore in sogno…
LE METAMORFOSI DEL VUOTO
In questo giorno nessuno
può trovare
la parola che cerca,
lo sguardo che consola.
La nebbia ha cominciato
presto a sciogliersi,
ma non tutto è limpido ora.
Come in una trance ipnotica
ti vedo brancolare
in spazi ristretti,
quasi nel buio
e senza sapere.
Devi essere andata via
per conto tuo,
perché nessuno
ti ha notato.
Ho sognato di te,
ma non eri tu,
ti ho parlato ma non c’eri,
ti sei fatta fantasma di te stessa,
di quello che eri
e il vuoto che hai lasciato
è certo in me,
ma è in te che hai scavato.
MARGARET PARLA
(dedicato a una persona a cui il mio aiuto è giunto troppo tardi…
qui ho voluto che lei parlasse, ancora una volta…)
…ricordi quella sera,
eravamo io e te,
in mezzo a tanta
gente ciarliera,
soli come orfani
di una festa finita…
sembrava una preghiera
sommessa la tua…
dovevo farlo, dicevo,
credendoci appena il tempo
di sopportare il tuo sguardo
tramutato in occhiata…
avrei potuto non farlo,
ma io ora non potrei
non essere il risultato
di quella scelta fatta
per darmi il coraggio
di fare una scelta…
…insieme a tante cose,
è vero:
– ai miei mal di testa
(non chiamarmi Margaret
a quel modo,
sai che non lo sopporto)…
…-insieme alla mia incapacità
di essere puntuale
a un appuntamento
(la sento ancora
la tua voce sussurrarmi:
“Margaret vieni più vicino”.
Non tentarmi, demonio!
Lasciami sola con i miei fantasmi)
-insieme alla mia voglia
di gridare
(… senti, una frenata sull’asfalto
e l’eco dell’astratto
furore che la governa…)
-insieme ai miei singhiozzi
prima di incontrare qualcuno
che non sei tu
(non ripetermi: Margaret!)
(… lo vedi anche tu quell’elicottero
dalla mia finestra
che muove le sue pale
come un uccello
della notte ferito?…)…
…non voglio sentire
quel sussurro,
la tua lusinga di padrone
della mia anima;
vorrei che appartenesse
solo a me,
a me sola capace
di concedere qualcosa
della sua libertà…
forse uscirò adesso,
farò una passeggiata,
mi lascerò andare per i viali,
capace di sopportare
la mia ombra,
unificata all’altra
metà di me stessa…
ecco, mi decido, chiudo
questo quaderno ed esco,
sento quasi una voluttà
di prime persone singolari,
gioco con l’alfabeto,
con il lessico
di quell’indecifrabile
mio essere donna…
…(ma se mi chiami, vengo,
sento già il telefono squillare…)
…no, può squillare
quanto vuole,
non vengo, non verrò,
non sarei venuta
(-ma non torturarmi
con il tuo bisbiglio sommesso
-non chiamarmi: Margaret!)
sai che è peggio
quando mi arrabbio…
è stata una giornata faticosa…
DUETTO
IO- Lasciamo i discorsi, amiamoci.
MARGARET- E’ dell’amore che parlo.
IO- E’ dell’amore che ascolto,
come un eroe romantico.
MARGARET- No, dovunque appaia riscatta,
anche i fondali di una scena
di cartapesta.
IO- E’ teatro l’amore dunque.
MARGARET- Oh si, l’amore
come teatro dell’amore.
IO- Amo il teatro, allora.
MARGARET- Si, ma ti rifiuti all’azione
della scena, non vuoi essere
attore.
IO- No, non attore,
magari un servo di scena,
un macchinista,
un guardarobiere.
MARGARET- Magari un musicista.
IO- Ecco, vedi, la musica
è sempre qualcosa
che sta dietro le quinte,
e i musicisti non sono attori,
non cadono trafitti
da pugnalate d’amore,
principi splendenti
di una splendida corte.
MARGARET- Ah potessi io per un solo attimo
essere l’autore della musica
che accompagna quella scena,
modulare quell’encomio,
suggerire quell’affetto,
orchestrare quel lutto o quel dono:
ti cederei il mio posto di donzella.
IO- Accetterei questo scambio,
muto e senza suono,
e mi accarezzerei le trecce,
nel mio specchio perdendomi.
IL SUO MISTERO D’AMORE
Com’ è dura e dolce
la valle carezzata
dal silenzio e dal compianto
col sole radente, pochi alberi
in fiore; non trovo le parole
per dare voce al dolore.
Le ero unito da un affetto
umile e sereno,
anche nello scontro
delle parole, le mie
lacrime vorrebbero poter
dirle che la sento vicina.
Tra gente senza veli,
di cui si legge nello sguardo
una luce senz’ombra,
sognerò l’oltrepassamento.
Mi risuonano gli echi
nella mente
delle sue parole,
ricordo il suo mistero d’amore,
il suo credito leggero;
c’è gioia in questo,
è per il futuro, l’offerta,
a quello che lei definiva l’Altro.
CONSERVERÒ COME RICORDO
Conserverò come ricordo
le nostre conversazioni
sulla musica, il tuo amore
per la polifonia fiamminga,
per Monteverdi, per il teatro
musicale contemporaneo.
Dicevi di amare la voce in musica,
dove la lingua si trasforma in canto.
Nel deserto delle parole.
Così sto facendo ora con te,
passando in silenzio
dall’allegra performatività
della tua voce-azione
al segno congelato
del tuo ricordo, Margaret,
come un palinsesto dimenticato.
SPEAKERS’ CORNER
Ti ricordi di quando 26 anni fa
improvvisammo quel discorso
su una cassetta di birre
allo “Speakers’ Corner”
di Hyde Park,
l'”angolo degli oratori”,
in cui ciascuno può dire
quello che gli pare.
Di che parlavamo sotto la pioggia?
Del fatto che fino ad ora
la storia è stata solo una pre-istoria,
che la vera storia dell’uomo
deve ancora cominciare.
ma eravamo folli noi,
o è folle la storia?
Ci sono passato stamattina
canticchiando “Layla”.
Ricordi la scena, Margaret?:
Londra, Hyde Park all’imbrunire,
entra Eric Clapton e comincia
a cantare “Layla”…
poi fa quell’assolo lì…
il gruppo gli tiene dietro…
migliaia di persone
che ascoltano in piedi,
nessuno spinge,
nessuno si lamenta…
le luci della sera
su Londra, a giugno…
we’re dreamers, inguaribilmente…
WHISPERS
Se ne sta andando il 2009:
quarant’anni esatti dal 1969,
l’ultima volta che abbiamo
sognato tutti insieme
la possibilità di un mondo migliore.
Ora restano solo “whispers”,
bisbigli, mormorii
sulle profezie maya.
Auguri, cara Margaret,
ovunque tu sia.
Qualcuno mi ha scritto un sms
sul cellulare, ma non lo leggo.
Guardo fuori la finestra,
il cielo è basso su Scotland Yard.
nei romanzi di Ian Fleming
non è mai inquadrato di mattina,
solo di sera.
Io aspetterò il calar delle tenebre,
devo vedere prima due o tre cose
della città che non vidi allora,
nel marzo del 1984,
ventisei anni fa,
un altro secolo,
l’anno in cui era ambientato
il romanzo di Orwell
e quello del nostro incontro.
Il cielo è basso
su Scotland Yard.
LO SPROFONDO
Fare vuoto dentro e intorno.
Sedere immobile
mentre tutti gli altri si agitano.
Scavare nelle parole
fino ad ottenere il silenzio.
Sono pronto per lo sprofondo.
Ed entro nella fase critica.
Sono pronto a ricominciare,
per esempio consigliare
di leggere
libri che nessuno leggerà,
pezzi di musica
che nessuno
ascolterà,
opere d’arte
che nessuno vedrà.
Sono pronto per lo sprofondo.
non è colpa né mia
né di chi mi sta di fronte
se parliamo
lingue diverse,
gente che non riesce a capire
che il divertimento
senza un attimo di riflessione è follia,
che la riflessione
senza divertimento è paranoia.
per loro è tutto uguale,
non c’è più nessuna differenza,
nessun valore.
Sono pronto per lo sprofondo.
Ormai è andata,
bisogna accettare “tutte” le cose,
proprio tutte,
tutte.
Sono pronto per lo sprofondo
E’ come una prigione.
E’ dura, mi fa male al cuore.
Vorrei essere a 380 mila km da qui,
ma non si può.
Nel silenzio di questa notte
sono solo con me stesso.
Don’t look back, don’t look back.
Quante volte me lo devo ripetere,
prima di voltarmi?
Sezione terza
III. RUMORI E SILENZI
RUMORI
IMPROVVISE ACCELERAZIONI
Un alito di vento tiepido
E tutto diventa più veloce
Proprio quella sensazione
Che ti agita le vene
Sulla moto
E ti schiarisce la visione
Di un altro percorso
Di un altro Oriente
E’ come una scalata di marce
Una ripresa in sorpasso
Dove il vento ti è amico
Un soffio e l’ebbrezza
La velocità e la dolcezza
L’asfalto non ti tradirà
Si raddrizza all’orizzonte
Le salite come onde
Il sudore sotto il giubbotto
Ancora pesante
Una suonata con gli amici
Progetti che si intrecciano
L’estate ancora lontana
Che si avvicina
L’aereo per Tunisi
Il bagno a Port El Kantaoui
Night
Night in Tunisia
Nait in Tunìscia strascicato
Un’amica mi ha appena
Detto e rivelato
Che ho la febbre
Febbre africana
Si chiama mal d’Africa
Mi accomuna alla mia
Diletta figlioletta
Anche se io ci vado solo soletto
E per turismo
Per allontanare quest’angoscia
E lei per fare volontariato
Non è la stessa cosa
La mattinata nello studio
Passa in un lampo
Tra un pezzo e l’altro
Di un sax anchilosato
Il volume sparato
Dell’opera completa
Dei Led Zeppelin
La musica ti rimbomba nelle vene
Fa vibrare vetri e timpani e languori
Va in risonanza
Tutto l’universo umano
Trascinandosi le mille delusioni
Di una vita quotidiana
Senza più illusioni
Il ritmo che mi piace è questo qui
Prima lento
e poi sempre più veloce
Veloce veloce divora
Ingoia esplora annaspa protesta
Non reggo ma si reggo
non reggo si reggo
Ancora ancora e ancora
Come una banda di adolescenti
Che non hanno paura di niente
Non l’hanno mai avuta
E non l’avranno mai
È tutto un metallo vibrante
Lo studio è tutto un via vai
Una processione di esultanza
Amici che non vedevamo
Dall’ultima delusione
Di diecimila anni fa
Dall’ultima storia d’amore finita male
Dall’ultima partita di calcetto
Con la barba non rifatta
Dall’ultima seduta dallo psichiatra
Ce ne sono diversi di noi
Che abitano nella casa
Della depressione
Se ne stanno tranquilli nella loro
solitudine domestica
Appollaiati nelle loro domeniche
Meste davanti alla televisione
A sentire i risultati delle partite di calcio
Ma ora no, venite qui, Carlo, Francesco
Mario e Giacomo e poi gli altri della compagnia
Si fa festa si va via si spara la dolcezza
È la batteria che implora
Forte forte sempre più intensa
Col basso elettrico a oltranza
E il sax ad libitum
Il cantante va in esultanza
Non l’avevamo mai visto così
Questo qui vola
Se non lo fermiamo
Questo qui è capace che si innamora
Ma è l’effetto dell’alcool
Alle dieci di mattino
Una banda di matti
Con la moto parcheggiata
Una calmata una calmata
Come arriveremo a stasera
Ma chi se ne importa
Noi vogliamo il nostro rap metropolitano
Noi vogliamo noi vogliamo noi desideriamo noi amiamo
Noi noi noi senza io
L’io che assilla e ti muore dentro
A poco a poco
Il nostro rap di forza
Il nostro rap che smorza e rinforza
Come il vento in una giornata di gioiosa tempesta
Asperità assorbite come veleno
Il nostro rap che attacca e stacca e attacca
In un jazz-rock sempre più stralunato
È nato un nuovo sta per nascere è nato
Rinato dalla sua morte apparente
Forse è morto senza un perché
Metallo che ti brucia la pelle
I vicini che protestano
Non vogliono accettare
Il fatto che siamo in festa
È come una dilatazione
Una sospensione da mille
Malinconie
Loro sono soddisfatti
Della vita che hanno
Non hanno bisogno
Di arrivare a centosettanta
Non hanno bisogno
Di dirsi che la vita
Ricomincia ogni giorno
Non conoscono le notti
Africane che sono sempre più vicine
Ma noi, si, io si, noi si, io si,
Voglio andare lontano, sempre più lontano
Non c’è pienezza d’essere in questo pantano.
METAFISICA DELLA VOCE
L’INCANTO DELLE VOCI DI DONNA
Sono incantato dalle voci femminili,
come per malìa, in un sortilegio
di timbriche segrete, nascoste magie.
Ricordo che da ragazzo mi innamorai
della voce di Janis Joplin.
Ebbi un sogno, la vidi morire.
Innamorarmi delle voci di donna,
facendomi fantasticare
sulle legittime proprietarie,
è costante mia caratteristica da sempre,
non ricordo più nemmeno da quando.
Forse non c’è nemmeno un inizio.
O, se c’è, si perde in lallazioni
ancestrali, balbettii e sospiri
di aperture abissali, di un ignoto che divora.
La voce femminile esercita una sorta
di attrazione seduttiva sulle corde
di insondabili miei percorsi interiori.
Basta un niente, un armonico vagante
e ne resto incantato, in ascolto, stregato,
al telefono, sugli autobus, per strada,
in doppiaggi di film con la gracchiante
fonetica di vecchie pellicole,
al teatro, nella musica di tutti i generi.
Per me la voce di donna
è la voce della Malinconia.
Forse perché è voce di mistero.
PERCORSI DI VITA
Le voci descrivono percorsi di vita:
le antiche tarantolate nella
cappella di San Paolo a Galatina di Lecce;
le vecchine che cantano le nenie funebri
nei paesi della Basilicata;
mia nonna costretta a cantare
per lenire le mie occasionali disappetenze
in un paesino del Cilento vicino all’antica,
veneranda Elea,
o a raccontarmi interminabili storie per ore
(tutto il mio interesse per la vocalità nasce da lì,
da quelle mie personali “Mille e una notte”,
e ancora una volta raccontate
da una magnifica voce femminile),
e allora sì che trangugiavo tutto;
le suonatrici di Kulintang
di un villaggio islamico delle Filippine,
che per ricordo mi hanno lasciato
una mattina in un albergo di Amsterdam
un biglietto da visita scritto a penna
dopo un bellissimo concerto notturno.
IL BRUSIO DELLA LINGUA
Il canto è brusio della lingua,
brusio di lingue musicali
che formicolano
– anche se un po’ straniate –
nel corso della vita della gente.
E’ la lingua degli esseri viventi,
di cui sono innamorato,
prima ancora che del loro canto,
quella lingua che pulsa quando
non sono umiliati e offesi,
quando si sentono a loro agio,
quando sono felici.
Il canto nasce da questa condizione.
CANTO COLLETTIVO
“Sa contra”, cioè il baritono
di un gruppo vocale “a tenores”
(gruppi maschili di cantori”a cappella”, senza strumenti),
di Bitti, un paesino della Sardegna,
incuriosito e forse allegramente spazientito
dalle mie domande sulla vocalità a Bitti
mi ha risposto una volta,
dopo un’esibizione,
che non c’era niente da capire
in tutte quelle questioni,
riportandomi un ricordo
di quand’era piccolo
e accompagnava la madre
nei lavori dei campi.
Vedi, da noi tutti cantavano.
Si andava per campi e per riposarci
ogni tanto ci sedevamo sotto un albero.
Senza una parola qualcuno cominciava
a cantare,
veniva dalla terra.
Andavate d’accordo
col vostro Drago,
gli ho risposto.
Si è fatto una risata,
ma forse non mi ha capito.
Non poteva capirmi.
L’INFELICE STRANIERO
Il canto nasconde anche
dentro casa i nemici,
accudisce l’infelice straniero,
il Wanderer,
colui che tradirà nell’addio
l’antica fede.
Il mondo come un flatus
con l’apparenza
di una grammatica.
Bello, conservare il silenzio,
come essere tuonante.
UNA SOLA PAROLA
Una sola parola, quella che colpisce.
Ferisce, penetra, sconvolge;
ti offende e dilagante s’invola.
Tu sai di non poterla trattenere,
liquida, immeritata e frusciante
al tramonto, sul far della sera.
E’ detta con innocenza infantile
mentre il sole sta amoreggiando
con una scheggia lontana di monte
come una divinità lasciva.
Entra noncurante nei percorsi
segreti che i tuoi sensi di colpa
sanno bene e che risuonano a festa.
Da pronto che eri a farti rapire
da un panorama acquerellato,
disegnato con quieto virtuosismo,
la parola da dire assassina
furtiva ti ha sottratto l’incanto,
con un gesto di nuvole bizzose.
UNA VOCE CHE NON CANTA
La secchezza di un accordo
misura la natura del tocco
musicale su corde restie,
ferme in una loro mestizia.
Sembrano forse ubbidire
al mio stato d’animo attuale,
fremente di novità e chiuso
in una sua mutezza siderale.
Quell’accordo accompagna
una voce che non canta,
ma recita la sommessa attesa
di un accompagnamento astrale.
E’ proprio l’ora che dispone
a uno svogliato cambio di registro
come una scala discendente,
cromaticamente surreale.
SILENZI
NOTTURNO
C’è una strana oppressione
nell’aria stasera,
ma come avvolta
da una certa malìa
e spazia con lo sguardo
sull’intero paesaggio.
Sembra svanita
la gioia fugace
di un pomeriggio passato
a gareggiare col tramonto,
rubato alla sua polvere
originaria.
Qualcuno
in lontananza
con un lamento nell’anima
si dirige verso Est,
qualcun altro traccia
un cerchio giù in strada.
IO, TRESOR E LA MORTE
Nel gioco delle attrazioni
e delle repulsioni, accompagnati
da un corteo di ninfe leggiadre
Io, Tresor e la Morte
siamo entrati,
percorrendo il lontano e il vicino
in miraggi di spiagge assolate
dove, purché si riesca a non dormire,
la felicità dura ventiquattro ore,
o in lente notturne malinconiche traversate
in cui si scandiscono in millenni i minuti.
In quelle lande Io, Tresor e la Morte
cerchiamo le leggi del bene e del male
scambiandoci baci di sabbia
in una fitta conversazione
di poche parole e di molti sospiri
e le ninfe accendono fuochi lontani.
Misteriosi allineamenti planetari
si profilano all’orizzonte,
osservati dalla Morte con occhio benevolo,
come con occhio benevolo
legge nei nostri occhi la nostra mesta,
quieta disperazione.
Realizziamo in un attimo il massimo
della socievolezza e della solitudine.
Questo la Morte lo sa, ce lo ha concesso,
lei sola e molti nello stesso tempo.
Come sa della nostra infinita nostalgia
per cose che sarebbero potute accadere
e invece non sono accadute
e del nostro infinito percorrere
con gli occhi dell’immaginazione
e il cuore in fiamme
i gironi delle nostre possibilità inespresse,
ormai affidate alle leggi del tempo.
Quel volto, quello sguardo, quella parola
che era lì lì per essere liberata
dal suo involucro e che non è stata pronunciata,
quel contatto risucchiato nel vortice
della vita ordinaria e che avrebbe potuto darci
per un attimo la sensazione
di essere vivi,
Io, Tresor e la Morte
li disegniamo sulla sabbia,
in rapidi gesti fuggitivi.
PALLIDA TRESOR
E’ pallida Tresor
ha il color della notte,
coccola mille frammenti di pensiero
che poi sopprime nel suo seno
in un’infinita tristezza d’esistere.
Non credo che sia capita, Tresor,
non so neanche se lo vorrebbe.
Ma ora un’altra giovane donna, che vibra
sulla sua stessa lunghezza d’onda
e d’angoscia, percorre
il suo stesso sentiero,
incerta e fragile come il nulla.
Forse lei può capire Tresor
nella sua infinita lontananza.
Io, forse si, forse no, io Tresor la vedo
da un altro spazio,
da un altro tempo,
da un uguale altrove.
Lei parla con la morte
in un fitto dialogo sussurrato
nei meandri di un suo
mesto, dolcissimo linguaggio cifrato.
INESATTA NOZIONE DEL RISCHIO
Rischi, riti stinti
cinti di iniqui, infidi giri
in libidini di liquidi cigli,
di viscidi lidi.
E’ con inesatta nozione
che perdutamente amanti
ci volgiamo ai tuoi giochi
truccati. Pasticciano suoni
coi significati, in lampi
che definiscono
nel tempo e nello spazio
la nostra attesa.
Spine ci vogliamo esosi,
in spire nervose, per gelose
spinte nell’epica del rischio che disamora.
Rischi umani, di scelte inconsuete.
Come a mentire i volti,
in querule, lunghe diatribe
o a riverire regimi.
Rischi
Celati da una sommessa
erodianza musicale.
Il rischio mi divora.
Spegnere
speme
stendere
stele
L’AMORE A SPECCHIO
Tresor vorrebbe parlare di Dio
ma quell’infinito dell’attesa,
il mio infinito,
è un infinito con poche presenze,
e forse senza Dio.
E’ il percorso di una disillusione
esistenziale,
l’impossibilità di godere delle cose
nella loro purezza originaria,
l’impossibilità di vivere una vita
quintessenziale.
Lì l’amore si fa specchio dell’esistenza.
E amare e essere amato,
dice Tresor, divengono due labbra
della stessa ferita, come il bene e il male.
L’infinito è quindi della materia,
del tempo e dello spazio
e anche di noi stessi in quanto materia,
ma nel momento stesso
in cui lo percepiamo e forse vediamo
ci caducizziamo, scontiamo il finito,
amiamo, diventiamo mortali in coscienza,
non siamo più tutt’uno.
TRESOR E L’INFINITO
Tresor mi parla dell’infinito potenziale
e dell’infinito attuale
e lo fa come se stesse parlando del tempo.
E’ stata colpita da alcuni miei versi
in cui si parla dell’attesa,
in cui si evoca l’infinito
in spazi ristretti.
LE FATICHE DI TRESOR
Conoscere il mondo
aiuta a dare
un senso alla fatica,
ma io e Tresor aggiungiamo
fatica a fatica.
Forse non impareremo, attraverso
la molteplicità delle esperienze
a comprendere la verità.
Apprenderemo forse a capirne
gli inganni e i risvolti.
Alla fine del viaggio
non sapremo nemmeno
se saremo
arrivati a Dio,
ma forse non c’era alto modo
per raggiungere se stessi.
Forse non c’è un Dio,
c’è un sé,
specchio di un altro.
Coincidono.
Sezione quarta
LA FINE DELL’ONDA LUNGA
“Un’epoca sorgerà carica di sole…”
“Von Sonne lauter eine Zeit wird sein…”
Walter Benjamin, Sonetti e poesie spaese
1
Occhi di un dodicenne davanti alla tivu.
Forse distratti, qualche volta attratti
dai misteriosi canali della cronaca,
anche se non sa chi è Aleksander Dubcek
e appena sa dov’è Praga,
in un telegiornale di gennaio
del sessantotto.
Si, proprio sessantotto.
E non sa dov’è il Vietnam
e perché si parla del villaggio di My Lai.
Sembra il titolo di una canzone.
E non sa dov’è Valle Giulia,
pensa che sia una valle del Trentino,
l’ha appena studiata a scuola
la geografia, un po’ noiosa ma viva
e perché quei giovani sono malmenati
dalla polizia. Anche se va a loro
la sua istintiva simpatia. E neanche
di questo può dire il perché.
2
A Memphis uno sparo.
E campeggia nei titoli dei telegiornali.
Hanno ammazzato un leader nero,
Martin Luther King.
Provo a chiedere a mio padre
chi è Martin Luther King.
In qualche modo me lo spiega
Ma quello che non si spiega
è perché ho tutta quell’urgenza
nello sguardo.
3
Maggio francese non è il titolo
di una manifestazione vinicola
e Charles De Gaulle non è un bonario
agricoltore del Midi.
Lì si fa sul serio. E ci sono molte
ragazze tra i manifestanti di piazza.
Dato molto interessante
Per un dodicenne meditabondo
ma in tiro.
4
La Sorbona si mescola
con la morte di Robert Kennedy,
la Francia e l’America,
ma per motivi opposti.
Ma non è che si è capito bene
al telegiornale.
Qualcuno sa dirmi qualcosa?
C’è qualcuno che ci capisce
in questo casino?
Giovanni Leone forma
un nuovo governo democristiano.
Ecco un pilastro e baluardo
di chiarezza. Ecco ciò che non mi piace.
Tra i manifesti della campagna
elettorale
a me piacciono quelli del PSIUP,
belli ma dalla sigla misteriosa.
Com’è che mi attrae tanto il rosso?
Perché sono rosse le bandiere
degli studenti di Città del Messico?
5
Ritorna Praga in tivu
con dei carri armati per strada.
Ormai sono schierato
e l’unico della mia classe
che vede il telegiornale.
Sto dalla parte di chi protesta.
Sto dalla parte di chi contesta.
Non è un fatto di testa,
è una sensazione di pelle
anche se non ne capisco
le ragioni.
Io, ragazzo, sto dalla parte
dei giovani, che siano
italiani, praghesi o cinesi.
6
La polizia mena e dà molte botte:
è un dato che dovrò tenere
bene a mente da ora in poi.
Valle Giulia, Avola,
la Sorbona e l’Italia.
In Italia mena,
in Vietnam l’esercito
bombarda.
Non è uno spettacolo
edificante.
Intanto, prendo nove in storia
a scuola, anche
se si tratta di storia romana
e qualcuno mi sfotte.
Sono entrato nel conflitto
con la testa e con tutta l’anima.
I primi momenti di una iniziazione
molto casalinga e autoctona.
Una ragazzina mi lascia
perché pretendo di parlarle
del Vietnam. O sarà stato
per qualche altra ragione?
Magari lo storico ardimento
mi avrà portato ad allungare
le mani. Più probabile.
Sono gli effetti delle
molteplici cotte.
7
Ora la corsa è a chi impara
più accordi di chitarra.
Mio padre mi ha mandato
a lezione di solfeggio.
Scopro con felice intuito
che la chitarra classica
che sto studiando
alla Scuola di musica
è la stessa di quella
usata dai musicisti rock e pop.
Stesso principio:
comincia l’opera di
trasformazione.
Fertile.
E con incorporata mimica
da specchio.
8
Ora la vera contestazione
ha un nome, anche se un po’ strano.
Non è più una moltitudine
senza volto.
Si chiama Jan Palach.
I telegiornali ne sono pieni
ma qualcuno mi spiega
che quel volto sta diventando
un’icona anticomunista.
Non capisco né l’una né l’altra parola
e soprattutto non capisco
perché la contestazione
di qua è comunista
e di là anticomunista.
Cambia colore a seconda
della cortina di ferro?
Al di qua della cortina
ha un altro sapore?
9
Lo scioglimento dei Beatles
è stato una specie di dramma.
Ora John Lennon sposa Yoko Ono.
La cosa non mi entusiasma.
Io sto con i Rolling Stones.
10
Ormai è tutto uno scontro,
da Roma alla lontana Irlanda.
Il clima è elettrizzante.
E poi c’è la luna.
Audi Cinquanta
A Roma ci sono arrivato
con un’Audi Cinquanta
di colore verde.
La prima notte me l’hanno prelevata
con il carro attrezzi.
E’ lì che ho imparato
a guadarmi dalla cattiveria
della mia vicina di casa,
con i suoi gatti miagolanti
e con i suoi tavoli di incerata.
Davanti avevo la caserma
della Celere,
giù a Castro Pretorio,
di fianco alla Stazione Termini,
a due passi dal giornale,
nei pressi della Sapienza.
Avevo tutto sotto mano.
Era il mille novecento settantacinque.
Forse un quindici settembre o giù di lì.
Qualcuno li ha chiamati
“Anni di piombo”
Ma per chi li ha vissuti da dentro
non di piombo erano gli anni
ma forse d’argento o d’oro.
Lo scrigno fluviale dei ricordi
Questa canzone ha aperto lo scrigno fluviale dei ricordi e non lo sa che con me è pericoloso perché la sua capienza ha qualcosa che mi stordisce e mi offusca la trama quotidiana delle azioni e delle sensazioni, come un’eco che arriva da lontano. E quando mi imbatto per caso in “I Can’t Quit You Babe” dei Led Zeppelin a rotearmi davanti agli occhi è quell’occasione in particolare: in uno dei bagni di Filosofia alla Sapienza (allora al terzo piano di Lettere), mentre in classe il Prof stava spiegando la Critica della Ragion Pura volli fare un saggio di critica della Sragion pura, pronunciando la stessa frase,”I Can’t Quit You Babe” -follemente innamorato- a una ragazza che guardava indifferente dalla finestra, io mimando la chitarra solista dei Led nell’accompagnamento delle parole e suonando poi nel vuoto, solo con i gesti, e una plettrata sull’anca, come fanno i veri chitarristi, poi nel corridoio. Il prof di Filosofia antica che passava in quel momento mi fece uno strano gesto, puntandosi il dito all’altezza della tempia e girandolo più volte su se stesso. Ma poi allargò le braccia, come a dire: che ci vuoi fare! Aveva capito, l’affascinante vegliardo, il mio Prof preferito. Da quel momento non l’ho più vista sperimentando il cuore duro delle donne, quando vogliono. E non è raro. Solo in seguito ho poi saputo che aveva fatto un matrimonio riparatore. Con un impiegato di banca.
AMORI, AMICIZIE E ALTRE LONTANANZE
QUELLA PIETRA IN ALTO A DESTRA
Quarta ginnasiale contro primo
liceo nella periferia di una città
di periferia, Potenza, ma per noi
al centro del mondo universo.
Intensa settimana di scuola,
era la nostra iniziazione
alla vita, intensa settimana
della nostra adolescenza,
…………………………..
tante volte poi accarezzata con
la mente, tante volte poi sognata.
Era maggio, e faceva caldo,
ma il caldo noi ce l’avevamo
dentro ed era un caldo bollente,
stile Quinto Orazio Flacco.
Eravamo “classici” e selvaggi,
grecisti allo stato brado,
…………………………..
impetuosi, spensierati, leggeri,
ma già tanto, tanto politicizzati.
Possibile che in quegli anni
ci si politicizzava così in fasce?
Quarta ginnasiale contro primo liceo,
la decisiva partita di campionato,
di un calcio appassionato,
laggiù nel campo della FGCI.
……………………………
Prima operazione: esibizione
con parcheggio dei nostro motorini,
al campo si va con i motorini
mica con l’autobus, ma dove vivete,
perché poi il casco serve per le manifestazioni.
Vuoi andare alle manifestazioni senza casco?
Sei matto, così le prendi di brutto,
e magari sotto lo scientifico,
…………………………….
a via Mazzini, quegli stronzi di fascisti
ti buttano in testa dall’alto un vaso di fiori.
E si arriva al campo tutti insieme,
come un branco di predoni,
padroni della città con mille sensazioni,
specie se poi hai convinto
una leggiadra donzella e bionda
di buona famiglia,
……………………………..
tu con i capelli lunghi come un randagio,
ad aggrapparsi dietro in un unico afflato.
Quanto l’abbiamo amato quel momento,
ce ne ricordiamo ancora oggi,
con una lacrima sul lato in ombra
della luce, di sbieco, camminando adagio
sotto i portici del Gran Caffè.
E si vola, si vola verso il campo
……………………………..
facendo il giro lungo, attraversando
tutta la città ai nostri piedi,
ai piedi dei nuovi conquistatori,
rossi di fede e di speranza,
sotto la bandiera del nostro comandante,
che ci dava un esempio
dall’altro lato della vita.
Si vola verso il campo con la marmitta
………………………………
in vena di canto, si vola al campo
con le magliette già indossate,
nere come la notte, azzurre come il cielo.
Ed è subito scontro di prodezze,
di colpi di testa, di carezze dopo un goal,
e noi di goal ne facemmo e ne prendemmo,
erano più grandi di noi,
avrebbero potuto farci a pezzi,
……………………………….
ma noi giocavamo in undici
più un pietra,
quella pietra in alto a destra
nell’aria di rigore che c’è ancora,
e su quel nobile minerale
saltò la mina del nostro principale
avversario, un giovanottone
che giocava nelle giovanili del Potenza,
………………………………..
che diede addio al suo menisco,
e poi loro si fecero un autogoal all’ultimo minuto.
Era fatta, potevamo fare il giro della città
all’incontrario e in segno di vittoria,
si beve si festeggia e poi tutti a mangiare
da Nicola “il tolvese” a Porta Salsa,
ma soltanto i prodi perché le donzelle
dovevano ritirarsi presto a quell’epoca,
…………………………………
ma noi avevamo
la chitarra,
e io il sax,
potevamo fare a meno
di compagnia
ma solo provvisoriamente
perché quelle donzelle
noi ce l’avevamo nel cuore.
QUANDO SIAMO STATI MIGLIORI
(a Marina)
Quando arrivò Marina al giornale
fu un avvenimento,
alta, bruna, veniva da Napoli,
spettacolare.
Studiava e lavorava, come me,
mentre gli altri avevano
abbandonato lo studio, o mai cominciato,
tutti presi dalla cronaca e dalla carriera.
Aveva molti interessi, Marina,
che coltivava nei suoi monolocali
che cambiava in continuazione,
sparsi in tutta Roma,
ne era piena la capitale.
Eravamo folli di gioventù.
Ed è rimasta nei nostri cuori
una surreale partita a fresbee
in una piazzetta di Trastevere,
cantando canzoni fantasiose
alle due di notte.
Nostra la notte, ubriachi di magia.
Anche se tutt’intorno
esplodevano i colpi della P38.
Era la primavera del Settantasette,
gli indiani metropolitani,
le manifestazioni femministe,
gli spari davanti all’Università.
Fu la prima volta che vidi passare
una pallottola, mentre entravo alla Sapienza,
facoltà di Lettere e Filosofia,
il centro di smistamento del movimento.
Mi leggeva il destino alle carte, Marina,
studiando o leggendo
o bevendo qualcosa, ascoltando musica
o quando andavamo fuori a cena.
Mi leggeva il destino alle carte,
ma non ne ha indovinata una.
Solo una cosa aveva capito al volo,
questa scontentezza mia esistenziale,
questo senso di vuoto e di morte.
Lo chiamava e chiama il mio tumulto interiore.
Ed è tantissimo come lettura predittiva,
una maga non arriverebbe a tanto.
La mattina al giornale assonnati.
La mattina al giornale obsoleti
coloro che pretendevano
di mettere le brache al movimento
o condannarlo in blocco,
col risultato di ricevere solo fischi
a Lama all’Università.
I Comunisti, che pretendevano
di interpretare e cambiare la storia,
non riuscivano a capire
il movimento nato nel cortile di casa.
E noi stavamo lì a cercare di turare
le falle, di inventarci strane parole d’ordine
per coprire con un lenzuolo il vuoto.
Dentro col cuore, lontani con la testa.
La solita dicotomia gramsciana, pasoliniana.
E poi fu la storia di Moro.
L’angoscia, la ferita e io rimasi solo.
SUL CONFINE DI ZEUTHEN
Sul confine di Zeuthen
ho trovato l’amore
era una ragazza coreana
di cui non ricordo il nome.
E appena ricordo dov’è Zeuthen,
dalle parti di Berlino forse,
quello che una volta era l’Est,
dietro quella che da noi
veniva definita graziosamente
la “Cortina di ferro”.
Dietro il ferro ho trovato l’amore,
ma l’ho subito riperso,
troppo bello già solo
l’averlo cercato.
Ma non ricordo nemmeno
se era prima o dopo la
Caduta del Muro,
forse prima, forse dopo,
ricordo solo un male oscuro
che mi aveva portato fin lì,
di quei mali che si curano
dopo una ferita
che sembrava
leggera ed era mortale.
C’era un lago, ricordo,
ma forse no, uno specchio d’acqua,
un fiume, era settembre,
non faceva né caldo né freddo,
l’estate stava per tramontare,
era l’estate del novantatre,
forse prima o forse dopo,
come il sole che vedevamo insieme,
a Zeuthen, un sole particolare
che sapeva di strane parole
come quelle che ci scambiavamo
in un tedesco che allora
miracolosamente funzionava,
funziona tutto quando c’è l’amore.
E a Zeuthen c’era,
ma poi non ci fu più.
Forse era l’effetto del confine,
tutto sembrava facile a Zeuthen,
perfino meglio che a Berlino,
ma a Berlino non ci potevo
più stare, ero stato ferito,
dovevo curarmi
e così avevo accettato
un passaggio da un amico
che si sentiva solo,
anche lui.
Andiamo a Zeuthen
e Zeuthen fu.
ANGELI IN UN PANORAMA POST-MODERNO
DICIOTTENNE FRAGILE
A vederti sembri
una Vip televisiva,
con i tacchi a spillo
il tubino nero
e la collana di perle.
Mastichi il lucidalabbra
alla fragola
quando parli
soffiando con il naso
e pulendoti col dorso
della mano su cui
è impresso un tatuaggio
qualsiasi ma firmatissimo,
e di quelli che poi
si tolgono.
Magari hai il piercing
sulla lingua o sull’ombelico
e sei amica del proprietario
del negozio di Tattoo
che è tanto figo
ed ha i capelli raccolti
in una crocchia
o in una coda di cavallo,
freakettaro in ritardo
di due generazioni
ma anche molto appeal
e che conosce
la musica giusta.
Diciottenne fragile
che mi svieni in classe,
arrogante magari,
pusillanime
ma sensibile
e follemente
innamorata.
Hai una concezione
talmente sbagliata
della scuola
da sembrare più arretrata
del più arretrato docente.
Per te la scuola
è uno strumento
una scala su cui si sale,
arrampicandoti a fatica,
un trampolino di lancio,
ma verso niente.
Come un provino
del Grande Fratello
hai fatto diventare
l’interrogazione,
quando va bene,
quando non ti sciogli
in lacrime
perché non hai studiato.
Già, tu ieri avevi la danza,
o la palestra
o il pattinaggio,
che peraltro odi,
ma di cui non puoi
fare a meno
per non sentirti out,
irrimediabilmente
sola,
la peggiore sciagura
che possa capitarti.
A TIZIANA
E’ da qui che partiamo, e sulla scia dei ricordi
con Tiziana è del nostro Leo che parliamo,
in un lento pomeriggio, che non è un animale
ma autore di letture obbligate
che avevamo osato rendere di confine, perché Tiziana
rende di confine anche le parole crociate.
La classe non parlava la nostra lingua,
ma in fondo capiva,
rimpiangeva solo forse metodi,
per far finta di studiare, più tradizionali e saporiferi.
Certo, non tutti. Genni, per esempio, ha avuto
sempre il guizzo giusto. O Salvo, mai in salvo.
Ma quando il metodo incalzava
qualcuno si nascondeva, qualcun altro
protestava, la maggioranza silenziosa si tacitava,
tranne Valeria e Tiziana, imbaldanzite
dal metodo trash, sconvolte e coinvolte.
(Mariagrazia dormiva o sognava,
sempre lo stesso volto a forma di luna).
Era divertente vederle sprizzare allegria
nella classe letargica e allergica alle novità
(Valeria più ombrosa, pensava all’esame,
Tiziana più sbarazzina, Tiziana
pensava e pensa a tutto contemporaneamente)
e nella sala del tè, anche Annalisa faceva l’occhiolino
ma Carla era assopita ed Enza la punzecchiava.
Questa, signori, era una lezione, con il suo sordo uditorio
Ma qualcosa resta, a me e a loro…
PRIMA ZAMBIA ORA NAIROBI
Mia figlia si prepara ad andare
per la seconda volta in Africa
a fare volontariato,
questa volta a Nairobi,
la prima in Zambia due anni fa…
ho la tentazione… ecco…
di cercare di dissuaderla…
ma è così forte il suo attaccamento
per quella gente… come si fa?
come si fa ad impedire
a una ragazza di ventidue anni
di credere in qualcosa…
lo so, è molto pericoloso…
che una qualche divinità
ci protegga!…
Sai cosa stavo pensando?
Che è proprio vero che i figli
realizzano i sogni dei padri…
ma, ora come ora,
non so se questo sia bene o male…
Che ne dici?
VAI, PICCOLA, VAI
Oggi è il compleanno
di una persona speciale,
col suo carico leggero,
proprio oggi che la festeggiata
si prepara a partire
per una meta lontana.
Sembra ieri che abbia aperto
gli occhi sul mondo
in una dolce, calma,
splendente giornata
di luglio di ventitré
anni fa. Di giovedì.
Ed ora eccola qui
Con la sua valigia, i suoi affetti,
i suoi sogni, i suoi ideali
che se ne va. Parte.
Va lontano. A Nairobi,
a fare volontariato
per le bambine abbandonate
alla periferia di una delle città
più difficili d’Africa.
Al sol pensiero mi sento male.
Crolla il misero mondo
delle mie certezze.
Lei che va incontro al futuro
E io qui immobile
a vederla partire.
Ma non si può rallentare
il passo di un’anima in volo.
E allora vai, piccola, vai.
Che un dio ci aiuti.
Lo so che
non si può fermare il mare.
VÈNTI DI VÉNTI
La prima cosa che ho visto di te
è la tua serenità,
ma la serenità si vede?
Si vede, forse la si percepisce
nascosta fra pieghe
che si manifestano leggere
dietro un sipario spesso troppo denso.
Ero un eroso rivolo spento,
spettro in stolti voli, perso dietro
sogni di rivolgimenti.
Sotto l’odoroso bosco
non mosso sognavo goloso
un rosso monologo,
ma fui scosso dal fremito
di una nuova responsabilità,
come si scuote un albero,
qualcosa da fare nella vita,
un obiettivo da raggiungere,
una creatura da proteggere.
Ora ti ascolto da un lontano
che è vicino, da un vicino
che è lontano
e sono fiero delle tue battaglie
ritmicamente silenziose,
o canterine sbarazzine,
ma sempre con un senso
profondo,
le mie sono state
sempre troppo eclatanti
e non hanno portato
mai a niente.
Ora sono vènti di vénti.
Vivere è il luogo,
il ritmo è in noi,
spirito di uomini
nonostante tutto sereni.
Ora sono vènti di vénti.
Cento di questi vénti.
UNO SGUARDO E MILLE BATTITI
Ascolta, tra le solite cose
che non posso dirti
ce n’è una che hai sentito
ma non in forma di parole,
no, in uno sguardo
tra la ringhiera delle scale.
E in quello sguardo
ricambiato
si sentiva la risonanza
di mille battiti e di cento parole
dette ascoltando i tuoi pensieri
senza tempo e senza fiato.
Magica atmosfera
di un luogo disarmonico
e attraversato e calpestato
da mille piedi frettolosi.
Gaia è la voce che si rivela
nei tuoi gesti,
riflessa in mille battiti
delle tue ciglia, come
una specie di inaspettato
regalo di mezzodì.
E’ nel tuo sguardo di festa
che si dissolvono i malumori
e si rasserenano l’ira,
la furia e la tempesta.
E tornano certi
vagheggiati languori,
una volta riservati
ad altri angeli.
Ma ora che il mio angelo
ha un altro nome
e sale,
è dal suo sorriso
che mi faccio accompagnare
su per le scale.
AMORE SENZA STIMA
Quando finisce qualcosa, si dice, senti il vuoto;
è quando finisce solo a metà che non sai più che fare.
Si è nel “quasi”,
si è quasi qualcosa
né del tutto,
né per niente.
Si è “quasi” innamorati, si pensano “quasi” pensieri
non del tutto espressi, si vorrebbe che non fossero mai nati.
E non finisce mai
questa tortura
dell’amare e non amare,
del cercare senza trovare.
Magari si è lasciati o ci si lascia, ma lo stato d’animo
non segue gli avvenimenti, resta indietro, è frastornato.
E’ la figura dell’amata
che non quadra,
comunque tu la giri,
è fuori squadra.
Ha un modo tutto suo d’essere infelice, un modo
tutto suo di roteare, rotolare, lasciarsi andare.
Ama farsi ammirare
da gente sbagliata.
E allora ti chiedi:
-posso farci qualcosa?
No, non puoi, ti rispondi e stai peggio di prima.
La risposta è proprio quella tra quelle che temevi.
Questo gioco di specchi
le è stato consigliato
dalla TV o da un’amica
che prende senza dare.
Lei si prepara a dare un significato positivo
alle peggiori figure e situazioni, ai peggiori fini.
Tu non li accetteresti
nemmeno sotto tortura,
è come una specie
sottile di abiura.
Guardala, passa dalla sciatteria più completa
a un’esagerata cura, a una sfacciata esibizione.
Sembra giocare ora
quasi con se stessa,
ama provocare,
vuole fare la dura.
La sua amica conosce un numero limitato di parole,
sempre le stesse, quelle imparate sui libri di scuola.
E anche quando
vuol far la colta
ti cita tre tristi
poesiole occasionali.
Le ha leggiucchiate in un’antologia di latino di quelle
non vendute di seconda mano o le ha condivise in effebi.
Si, magari un’elegia
di Tibullo, o il troppo
citato carpe diem
dell’oraziano Orazio.
Manovrava tutta l’ora di lezione di latino sul suo cellulare
su cui ha caricato nomi a caso su consiglio di un’esperta.
Voleva far vedere
anche lei che era
cercata, desiderata,
amata e molto cliccata.
Ma sul suo cellulare lei vedeva al massimo l’ora
e tu non sai più che cosa fare per far capire questo all’amore tuo.
Vorresti consigliarle
una qualche misura
magari ogni tanto
guardarsi dentro.
E le spieghi allora che queste continue giravolte e pose
alla fine la condurranno al nulla e al vuoto più completo.
Si, perché all’inizio
non era così, era sensibile,
acuta, innamorata.
E’ successo qualcosa.
Aveva in sé qualcosa di antico, era trasparente, silenziosa.
Sembrava dar peso alle minime sfumature, mai ombrosa.
Ora c’è questa qui
che le ha messo in testa
strane cose, e tutte
molto velenose.
Si, c’è questa figura di amica-tutta-un-sospiro che da un po’ di tempo
l’ha carpita e non la vuole mollare, del tutto cretina ma sa farsi ascoltare.
Quest’amica ha in mente
una sola cosa,
che sembra tanto un cliché,
uno stereotipo fasullo.
Altro che le poesie di Tibullo, lei mira la pezzo grosso
belloccio, di buona famiglia, alto e lontano dai problemi.
Quest’amica è tutta
un cliché, e sostiene
che solo così
si diviene appetibili.
Deve sbattere le ciglia, così ha visto fare, curarsi le unghie
indossare un certo tipo di pantaloni, un certo tipo di orecchini.
Sostiene che chi le sta
accanto deve pendere
dalle sue labbra, anche
se sono labbra di ignorante.
E l’amore tuo le dà retta, ascolta i suoi consigli serpentini,
non vuole mollarla, dice che ha ricevuto troppe delusioni.
Forse così potrà rifarsi,
se non del passato,
almeno del futuro
e tu l’hai persa.
E allora ti chiedi:
è colpa dell’amore
o dell’amata?
FIGLIE DI MAGGIO
(a Renata e Maio)
Figlie di maggio
sembrate due sorelle,
gemelle di lignaggio
e di poche parole
e pallide come rose.
Figlie di maggio
sfiorate dalla vita
e restie a recitare
la nostra comune
Commedia.
Figlie di maggio
spaventate
e attratte dal buio
della notte
e dalle sue
rare luci
come falene.
Figlie di maggio
la sensibilità
vi incendia.
Figlie di maggio
in uno scatto
solo
colto da Maio
quasi a volo.
A GIUSEPPE, CHE BRILLA COME UNA STELLA
Sembra che gli dia un gran dolore
se non capisco
una delle sue folgoranti battute
mentre sto spiegando
complicatissimi concetti
come la sostanza di Spinoza
o le monadi Leibniz.
Ci rimane male,
ne va della mia reputazione.
Ha un senso della lingua
che ne fa un vero poeta,
un giocoliere dell’assurdo,
un fromboliere del non-senso
che si incunea nelle pieghe
della genialità,
un fromboliere che arriva
sempre alla meta.
E’ una meta che conosce solo lui,
noi in classe siamo
semplici spettatori
e facciamo a gara
a chi arriva per primo,
a capire, comprendere, decifrare.
Sappiamo solo chi è l’ultimo
ma non glielo diciamo.
I primi si lanciano nell’agone
come atleti dell’Ellade antica.
Uno spettacolo dell’intelligenza.
Questo è il nostro terreno
di un gioco tutto intellettuale
che ci fa superare
anche i momenti di malumore.
Poi c’è la tribuna,
cheta come l’acqua di un fiume,
ma a volte questi svagati e silenti
spettatori capiscono meglio di noi.
La scuola sarebbe un’eterna primavera
se fosse fatta con un altro spirito,
che bella che sarebbe,
il luogo dello spirito
che cresce e si rinnova.
Tu, compagno di viaggio
di una risorgente aurora,
sei la prima stella del mattino
e l’ultima della sera.
CONFUNDIDA
Io mi perdo quando vedo il genio,
perdendoci ore a saziarmi
gli occhi e il cuore,
lo prendo come una specie di riscatto
dalla mediocrità
di un quotidiano senza vero.
E l’ho trovato una notte
nel sito di una ragazza sconosciuta
che aveva avuto la gentilezza
di chiedermi l’amicizia
nella nuova bibbia del mondo.
Sono andato a vedere
lo spazio dedicato al profilo
personale e ho fatto un balzo:
avevo trovato
insieme il genio e la tenerezza.
Questa ragazza, messicana,
aveva scritto, alla voce
orientamento religioso:
“confundida” (confusa).
Eccolo il lampo, di genio,
che illumina la notte
e nella sua confusione
ho riconosciuto la mia.
Più sicura appariva
nel suo orientamento politico:
“Izquierda claro”
(di sinistra, è chiaro),
ma è quel “confundida”
che ha toccato le mie corde
e non capita spesso
nella notte del tempo.
Ne ho visto allora altri,
di profili inconsueti,
e ho scoperto una cosa
che mi ha lasciato senza fiato.
L’Occidente, specie l’Europa,
è chiuso in se stesso e su stesso.
Nessuno si avventura,
la diffidenza regna sovrana,
anche in persone che pure
avrebbero qualcosa da dire
o da dare, francesi,
tedeschi, italiani.
Lì dove si aprono le porte,
qualche volta anche rischiose,
è un posto lontano dall’Occidente,
ma che è indefinibile,
non è neanche Oriente,
c’è tutta l’Europa dell’Est,
il Nord Africa
e l’America del Sud.
Ne ho visti altri, allora e ancora,
di siti sconosciuti
e a me familiari insieme
e ho trovato le parole
che mi fanno bene
e che non ascoltavo più da tempo.
Un’altra ragazza ha scritto
che in politica è per:
“Paz, Amor, Justicia. LIBERTAD”
(Pace, Amore, Giustizia, Libertà)
e che in ambito religioso segue:
“Espírito. Destino. AMOR”
(Spirito, Destino, Amore).
C’è anche chi scrive
che in ambito religioso
è “Still thinking about that one”,
cioè che ci sta pensando,
invece della solita definizione
dei laici sensibili che non vogliono
scrivere “ateo”: “agnostico”.
Siamo tutti “agnostici”
ben educati
che non vogliono offendere,
dalle idee politicamente corrette.
Ma a me è quel “confundida”
che mi lascia una speranza
e che mi riempie il cuore
di una tenerezza dimenticata.
“Confundida” nelle pieghe
dell’inconoscibile,
quella gentile fanciulla,
che per il resto ama la musica,
la poesia e fors’anche la filosofia,
non gliel’ho chiesto,
ma a quel punto
non mi interessava.
Benvenuta, fanciulla,
ti conosco da sempre…
Sezione Quinta
PASSIONI E VISIONI
LA TRAMA SEMPRE UGUALE DELLE ORE
CONTARE I PASSI
Contare i passi di questa stanza
è come voler enumerare l’infinito,
non basta a renderla commensurabile
una canzone d’odio e d’amore di Leonard Cohen.
I miei sbagli rintoccano le ore e i minuti
uno per uno, ignari di ciò che li aspetta,
come bambini inconsapevoli del domani.
La notte si insinua nel giorno
fino a intorpidirlo con i suoi lembi,
fino a renderlo esangue e striato,
mentre uno sciame di ricordi s’addensa
e lambisce le pareti a dirmi
che niente è mai veramente finito,
che niente è mai veramente cominciato.
L’attesa evoca strane figure
che mi dicono con sofferta ma finta noncuranza
che la voce di quel volto non arriverà,
che su quell’amore ti sei ancora una volta
sbagliato.
Amore mai veramente perduto,
mai veramente ritrovato.
IL TURBINIO DELLA FRETTA
Rompe i pensieri e li scompiglia la fretta.
Svelto, lo spiritello disonesto
turbina come un vento molesto
per calcolata furia di vendetta.
Vaga, si presenta un’immaginetta.
Sembra voler scavar nel solco mesto
di corso pure tante volte funesto
ma la furia incalza, forte e diretta.
Ho voglia di immergermi e sparire
per cercare in gallerie dimenticate
il sapore di un’antica dolcezza.
Incurante della mia propria stranezza
crearmi una prigione di uscite serrate.
E forse lì si può anche morire.
LA TRAMA SEMPRE UGUALE DELLE ORE
Quando la mente è nemica a se stessa
lo vedo dai miei sbalzi d’umore.
Si annebbia il mio mondo interiore,
la mia vita scorre inquieta e dimessa.
E’ il momento del respiro che cessa.
Le cose assumono uno strano colore
ed è una tenaglia la morsa del dolore.
Ho come la testa stretta in una pressa.
Gesti consueti si tingono di noia,
la parola si fa in bocca arida e amara,
nemmeno i sogni portano sollievo.
Il giorno assume un altro rilievo
e la trama delle ore si tesse ignara
del domani e pur uguale, senza gioia.
LE PASSIONI DELL’ANIMA
SMANIA
Questa smania mi vien giù
senza gradualità. Impercettibile,
senza un qualsiasi perché.
Già, a pensarci, senza un perché.
O se c’è, quanto imperscrutabile.
Se c’è.
Staziona sempre un po’ sul margine:
quello della sensibilità, la mia,
implacabile la smania ed erratica,
indecifrabile, al limite,
prima di abbattersi con intensità,
quella lì – passami il paragone- “metallica”.
C’è qualcosa di illogico in tutto ciò,
ingovernabile. Non ti sembra?
Mi sento vittima e martire
della sua voracità,
di una sua mefistofelica,
appunto, voracità.
Divento illeggibile a me stesso finché
dura questo strazio implacabile.
Chi o cosa mi libererà?
E’ come un incantesimo.
Un freddo incubo.
Un mostro liquido.
DESIDERIO
Ecco, la vedo. Forse la sento.
Mi ero ripromesso di non vederla più,
di non sentirla. Nemmeno.
Ma ora la vedo. E anche la sento.
Ed è un errore.
E’ un errore,
con desiderio incorporato.
Di gelosia aggravato.
Mi allude, la dispettosa.
Ha un sentore di impurità.
Non pretendevi mica di tenerla incatenata?
No, questo no, ma perché allude?
Che bisogno c’era di parlarmi del tizio
che le fa la corte? Ce n’era di bisogno?
Vuol provocare, stuzzicarti l’amor proprio.
Lei conosce la verità più di me,
che l’ho desiderata più di chiunque altra.
Ma era amore? No, questo no, che dici?
Mi attraeva la brutale femminilità
del suo corpo, magnetizzato
dalla sua prorompente fisicità.
Ed ora me la sta facendo pagare.
Sto pagando troppo.
Sto pagando tutto.
LA COSTRUZIONE DELLO SGUARDO
“… sono come l’occhio che vede quello che vede.
Il suo più piccolo movimento trasforma
il muro in nubi; la nube in orologio; l’orologio
in lettere parlanti…”
Paul Valery, Quaderni, I
STUDIO POLIMATERICO BLU
In quanti modi si può raccontare
il racconto di un riavvicinamento.
Tra me e il mio studio,
Studio Polimaterico Blu.
Ogni tanto litighiamo,
ma poi facciamo la pace.
Ogni tanto lo tradisco.
Per altre avventure umane.
Per una potenziata
percezione del reale
Ma poi torno.
Ogni tanto lo ripudio,
come quando sono in viaggio
o in moto.
Ma poi mi insinuo
nelle sue grazie
e mi perdona. Solo
che ha la tendenza all’entropia – al disordine.
E a me piace un certo ordine.
E’ una lotta continua.
Tra me e il mio Spazio.
Ne ho diverse di queste lotte.
Qui è lo Spazio che m’innamora.
Nell’infinito
di un particolare dettaglio.
WUNDERKAMMER
-La mia Wunderkammer,
o camera delle meraviglie
è di due stanzette a pianoterra
con ingresso sul marciapiede.
-La strada è una parallela
della via principale.
E’ trafficatissima e animata
di echi di voci alternanti.
-Il rumore continuo aiuta
a non sentirsi soli e non stanca.
Le porte sono a vetri,
così che d’estate
-oltre al caldo,
lasciano filtrare
una luce dissetante,
che incanta.
-Copre tutto uno spesso
strato di polvere.
Sembra il set
abbandonato di un film.
-Gli oggetti hanno
una loro disposizione
ma non sono sicuro
che sia quella giusta.
-La mia Wunderkammer
ha dimensioni frattali:
una superficie definita
e un perimetro infinito.
-In determinate circostanze
percorrere l’infinito
può dare una sensazione inebriante.
Come su una tela bianca.
COLLEZIONE DI OGGETTI IMPROBABILI
Mi piacerebbe di un’accolita
di oggetti improbabili
fare minuta ed esatta cronaca
degli accostamenti incongrui.
Calcolerei come un orafo
l’effetto erotogeno
che oggetti insoliti
hanno sull’immaginario.
Cose fuori d’uso ed eterogenee
possono fare da sismografi
dell’intensità inesprimibile
di un disordine semiotico.
Curerei come un monaco
la geometria del loro ordine
così come a nasconderne
l’esattezza microscopica.
Più si accumula la polvere,
più quell’assemblea tragicomica
assumerebbe un omeostatico
aspetto oscillatorio.
Non sarebbe però compito facile
uscire incolume
da quell’accolita
dal sapore metaforico.
IL PRIMO GESTO SULLA TELA
Il primo gesto sulla tela
è quello che conta.
E’ come una collisione
tra la concretezza e il nulla,
tra il segno e la materia.
Tutte le direzioni possibili
sono governate da quell’impulso.
Sembra una matrice astratta, in absentia;
quel gesto è più concreto di un taglio,
più discreto di un accenno.
Preciso ed evanescente.
Secco e seducente.
La mano è guidata
da un infinito possibile.
Le linee si fanno colore,
i colori rigorosi arabeschi.
Le possibilità del primo gesto
governano l’illusione.
Da Simonide Di Ceo a Orazio
ha la stessa funzione.
Ut pictura poësis.
Sezione Sesta
MEDITERRANEO E ALTRI ORIENTI
IL MIO SOGNO MEDITERRANEO”
Da Marrakesh a Carthage,
al deserto del Sinai,
a Tel Aviv che non dorme mai,
alla splendida Istanbul,
il mio sogno mediterraneo…
… e poi Corinto ventosa
e il maestoso silenzio
per incontrare l’altro me stesso
e la lentezza di un gesto
che ha dischiuso per un attimo
il mondo che non osavo cercare…
e da Corinto a Epidauro
col vento della moto
che mi asciuga il sudore
di un’infuocata estate
mediterranea…
ma a Epidauro serena
il regno di Asclepio
è come la pace e l’incanto
di un’eco infinita…
Ogni notte
passata in viaggio
un sogno
nel sogno
di tutti i sogni.
ALLE PORTE DI GERUSALEMME
Da lontano è come un’immagine
di sogno la terra promessa.
Al check-point un soldato
mi indica la strada in salita
per Gerusalemme città dorata
con un gesto e un assenso
che è insieme preghiera e resa
indicazione e gesto di intesa.
Gerusalemme terrena.
Gerusalemme celeste.
Un territorio armato.
Mi lascio alle spalle
stazioni di rifornimento
con mercatini di filo spinato
formicolanti e pullulanti
di gente che viene da Berlino,
Budapest, Varsavia, Odessa.
Il deserto è uno spettro di sale
con Masada, Qumran, i rotoli
del Mar Morto, la Giordania lontana.
Il deserto è solitudine terrena
col miraggio della città celeste.
Il deserto. Che parla una lingua
antica come il mondo.
La radio in macchina emette
suoni che potrebbero annunciare
da un momento all’altro una guerra.
La gente viaggia con scorte e viveri,
disposta a vivere o a morire,
pronta a tutto. Anche andare fino in fondo.
Da una parte e dall’altra, ebrei e arabi
hanno messo nel conto di indossare
la veste di un eventuale lutto.
Il traffico ora li porta in un’unica veste
di pellegrinaggio, ma un gesto solo,
un solo richiamo potrebbe schierarli
da una parte o dall’altra come due eserciti.
Sono tutti pronti, nell’imminenza.
Da una parte e dall’altra della città celeste.
IL MIO ORIENTE DELL’ANIMA”
Ricomincio a sentire il richiamo dell’Oriente…
a poco a poco, come un’onda che lentamente
si modella sulla superficie del mare…
il mio Oriente sono i volti, le parole
e i gesti dei miei amici
d’Oriente, che hanno insegnato
a un alunno impaziente e che non impara
cos’è la pace dell’anima…
ma quest’alunno non impara,
perché crede di sapere già ma non sa
questa è la verità, se qualche verità
c’è…
non impara perché non vuole imparare,
non è convinto di voler imparare,
traviato dalla scuola del polemos,
come la chiamavano i greci
e in greco “polemos” significa guerra…
ma la questione è sempre lì,
pace e guerra,
guerra o pace…
cosa scegli, amico, pace o guerra?
Ma io scelgo a giorni alterni
e sono un naufrago di due mari,
attraversato dalla corrente
di due culture, immerso e sommerso
dai flutti e che non si decide
nemmeno ad affogare…
abitante di mari infelici, lontano dai fiumi
che impartiscono la lentezza,
non c’è un posto dove posso stare…
come una sacerdotale maledizione prometeica
di scontentezza, inquieto ovunque girovago,
con troppe strade che non portano a niente,
sconto le parole che fraintendono,
i gesti che feriscono, le voci che trapassano
senza stare, senza dimorare…
Ricomincio a sentire
il richiamo dell’Oriente…
a poco a poco, come un’onda che lentamente
si modella sulla superficie del mare…
SULLA SPIAGGIA DI EL KANTAOUI
Sulla spiaggia di El Kantaoui
al tramonto il vento
trasporta la malinconia
come un’onda felice.
C’è una sirena in mare,
che attraversa le onde
leggera e flessuosa
nella più assoluta solitudine della sera.
Cerco in lontananza,
ma non si vede,
il paese che non
vorrei vedere.
Mentre una radio trasmette
una lenta litania araba,
una coppia attraversa la spiaggia,
lieve e sensuosa come un passo di danza.
Le luci cominciano a punteggiare
il tramonto e si spegne in un ravvicinato esotismo
il cullante furore di altre onde,
che si insinuano in un’inquietudine austera.
Sono pieghe che si intrecciano
in un labirinto tracciato a caratteri
esoterici nell’oscurità dell’inconscio,
come quelle di un velo.
NOMADE
Come qualcuno, posso dire
che porto in me la malinconia
di razze barbare,
con i loro istinti migratori
e il loro disgusto innato della vita,
che gli faceva lasciare i loro paesi
come per abbandonare se stessi.
Discendo forse da popoli migranti,
con l’animo di chi si appresta
a lasciare la casa
costruita con assi di legno
verso nuove aurore,
verso nuovi confini,
mentre invece mi chiudo
in una stabilità che è figlia
di un oscuro dovere morale.
Si spiega forse così quest’amore
per la vita fuggitiva degli alberghi
e per i loro abitanti notturni,
questo gusto di condividere la tavola
con commensali sconosciuti
in cerimoniose gratitudini,
consumando atti silenziosi di gentilezza
mentre assisto rapito a riti ancestrali
di religioni misteriose e lontane.
Ho nel sangue qualcosa
di nomadico, nordico
nell’amore per il più a sud
dei Mediterranei possibili.
Lì, lontano da me stesso,
mi sento a mio agio, come tanti
europei delusi che vivono qui.
In letti stranieri do vita
alla più meticolosa delle preghiere
serali,
recitando con la voce del cuore
la paura e l’angoscia
di conoscere
un qualsiasi domani.
SAHEL
Sulle coste ventose e dorate del Sahel
i ragazzi tunisini vanno a frotte
come a Marrakesch,
su marciapiedi polverosi
e lontani dalle spiagge,
sbirciando i verdissimi
campi da golf per stranieri
al di là della rete circondata
da efflorescenze
di buganvillee e di gelsomini.
Sembra l’Italia meridionale
di una volta,
con gli stranieri che sorseggiano
bibite magnificando le virtù dei luoghi,
mentre i nativi con la pelle
di un altro colore
sono affaccendati in ordinarie
occupazioni quotidiane.
Il Nord Africa sembra veramente
più disponibile a possedere
il senso di un altro universo
nel suo incrocio di razze e di culture,
gli arabi sulla linea costiera,
le popolazioni berbere verso l’interno,
gli occidentali che ne attraversano i confini.
Si notano le influenze più diverse,
l’araba, l’ebraica, la siciliana,
la lontana Andalusia.
Stretta tra due integralismi vicini,
quello libico e quello degli algerini,
pressata dal minaccioso deserto
che dal sud attende il suo momento
come un cammello piegato sulle ginocchia,
la fascia tunisina
ha mescolato nel suo aroma
ogni spezia del Mediterraneo.
Il paesaggio che da Monastir porta
a Sousse e ad El Kantaoui
si lascia accarezzare dolcemente
con lo sguardo, mentre colgo un frammento
di dialogo fra due signore tedesche, figlie dei fiori
con i capelli bianchi: l’Africa come una terapia.
IL LAMENTO DI DIDONE
In un fragore di passi
sconosciuti Cartagine
ha ceduto al tempo
la sua effigie fenicia.
Sembra quasi
somigliarci
questa storia
comune di sconfitte.
Ora attende
la reincarnazione
della sua regina
perduta in una notte lontana.
Sulle tracce di Didone,
cerco il suo nel volto
di giovani donne innamorate,
forse si sono passate il testimone
del più pietoso lamento
d’amore di tutti i tempi,
quello cantato da Virgilio,
il lamento di Didone abbandonata,
sulla pira di un eroismo avverso
e impegnato nel riscatto
di un’altra sconfitta,
di un più esaltante dolore.
Forse torna Didone,
a raccontarci
l’inconciliabile,
a mostrarci il potere
serpentino
e crudele del destino.
Didone vivrà
finché l’amore vivrà.
INDIA SONG
Sulla scaletta dell’aereo dell’Air India
che da Roma ci porterà
a New Delhi e a Bombay,
mi precede una giovane donna in “sari”,
il grazioso costume tradizionale indiano,
con in braccio la figlioletta
di quattro o cinque anni
che si gira verso di me,
che le sono dietro, e mi sorride.
Sulla fiancata dell’aereo,
a metà della scaletta d’imbarco,
leggo la scritta in inglese:
“Your Palace in the Sky”.
Nella fila centrale due coppie di indiani,
lenti e solenni nei preparativi del viaggio.
Un signore più indietro indossa il turbante,
il segno distintivo dei Sikh.
Quel sorriso, quella scritta sono
di buon auspicio, come direbbe un hindu.
Senza che me ne sia accorto,
sono dentro.
La Madre India mi ha sussurrato
il suo benvenuto.
COMPAGNA DI VIAGGIO
La mia compagna di viaggio
è una signora inglese di Manchester
che va a Bombay, oggi Mumbay.
Ha un completo nero
e le scarpe rosse;
le si indovina
un’antica bellezza.
Parleremo per tutto il viaggio,
sfiorando i sogni
dei passeggeri che dormono,
lambendo le loro sottili
e malcelate paure.
E anche noi ne abbiamo,
di sogni da raccontare
e tutti i sogni di una vita
si raccolgono
nel pugno di una sola notte.
CHAITRA
L’India nella stagione di “Chaitra”,
che corrisponde alla nostra primavera,
è una sinfonia di suoni, colori e sapori
prima dell’arrivo della stagione dei monsoni.
Per arrivare al tempio di Kanchipuram
attraversiamo la campagna indiana,
con i suoi villaggi,
le sue case sul bordo della strada.
E’ molto presto, la gente ha appena finito,
per chi ha voluto, la “puja”,
la preghiera rituale del mattino.
Sulle soglie delle povere case a un piano,
ornate da disegni geometrici in gesso
per buon augurio,
questo è un giorno di buon auspicio,
la gente è intenta al “dantha-devana”,
la pulizia dei denti, che avviene
con le foglie di un albero particolare,
camminando davanti all’ingresso,
tra bambini che giocano e donne
che vanno ad attingere l’acqua nel pozzo.
E’ uno sfavillio di colori.
Fa già molto caldo. Molto caldo.
A un incrocio un brahmino,
sacerdote induista, recita una preghiera
davanti al tempietto di un serpente,
nella destra il fuoco,
nella sinistra una campanella.
E’ la mia traccia del fuoco,
traccia di un imprevedibile
passaggio.
Traccia di fuoco.
AGNI, DIO DEL FUOCO
Mentre ci dirigiamo al Tempio di Belur
facciamo sosta in una specie di bar
lungo la strada a bere il “chai”,
il tè indiano fatto bollire nel latte,
che ha un sapore discutibile.
E’ più graziosa la manovra
di raffreddamento da parte
di chi lo prepara, che passa
il liquido da un bicchiere all’altro,
tenuti a grande distanza.
Sono incantato da quei gesti.
La televisione è accesa.
Nessuno di noi si aspetta di capire
granché in un telegiornale in “kannada”,
la lingua del Karnataka.
Ma all’improvviso si sente parlare inglese.
Il portavoce del ministro degli esteri
Indiano annuncia impassibile
che dopo undici mesi e undici giorni,
alle undici di mattina,
l’India ha fatto esplodere nello Stato
dell’Orissa una nuova testata nucleare.
Ci guardiamo costernati.
Sullo schermo appare la sagoma del missile,
con il suo nome bene in evidenza: Agni II.
Agni è il dio del fuoco nella mitologia hindu.
Mi sento sobbalzare il cuore in petto.
Forse ho trovato il mio dio. Il dio del fuoco.
PETALI DI FIORI
Di Nuova Delhi percepiamo
solo l’alone
di una città immensa.
L’atrio è animato da voci,
presenze,
volti religiosi.
Un gruppo di fedeli lascia vibrare
nell’aria corolle di petali di fiori.
Hanno il turbante dei Sikh,
accolgono il loro capo spirituale
di ritorno da un viaggio
e gli si prosternano
toccandogli la punta dei piedi
in segno di rispetto.
Così farò anch’io
con il mio prossimo dio.
IL COVO DEL PESCATORE
La sera torniamo a Covelong,
dov’è il nostro albergo,
un vero incanto:
si chiama “Fischerman’s Cove”,
il Covo del pescatore.
La cena sulla spiaggia del golfo
del Bengala, a base di granchi
e di ogni specie di pesci e di frutta
si consuma in un silenzio surreale,
punteggiato solo dalle luci che si vedono
in lontananza.
Fa molto caldo, forse 28 gradi.
Ma il caldo scioglie, come il fuoco.
Ed è quello che cerco.
Vorremmo fare il bagno
nell’oceano indiano,
ma non si può, è pericoloso.
Ripariamo sulla piscina a tre livelli,
ma l’acqua è più calda
della notte indiana.
E i miei pensieri volano.
Volano solo quando sono in viaggio,
lontano, lontano, chissà perché.
Me lo sono chiesto decine di volte,
ma sempre senza una spiegazione.
Una domanda muta e senza risposta.
MESSA TAMIL
Qualcuno della comitiva di italiani
cui mi sono aggregato nella visita
alla regione del Tamil Nadu
osserva
che l’indomani è il 5 aprile,
la Pasqua dei cristiani.
Voci di consenso e di dissenso.
Quel qualcuno chiede in giro,
in un inglese approssimativo,
se ci sia una chiesa cattolica
e riceve una risposta affermativa.
L’andiamo a vedere:
è un’immensa costruzione
in stile gotico
ma senza guglie
e tutta dipinta di giallo,
con le modanature più scure,
sul marrone.
Fa un certo effetto.
L’indomani ci presentiamo
alla funzione,
che si tiene alle otto di mattina.
L’interno produce un effetto migliore.
Non ci sono panche
o sedili.
I fedeli sono inginocchiati
per terra.
Vestono in “sari” le donne,
gli uomini hanno abbandonato
per un attimo il gonnellino (“doti”)
che è il costume maschile
nazionale del Tamil Nadu
e indossano dei calzoni,
ma sono scalzi.
Anche la madonna sull’altare
è acconciata in un “sari”
multicolore.
Il sacerdote è molto
professionale,
addobbato con i paramenti
sacerdotali,
ma scalzo.
La messa è in lingua “tamil”,
una lingua “dravidica”
di origine non “arya”,
è la lingua dei sottomessi,
non dei conquistatori.
La messa mi sembra
del tutto conforme;
ma il gesto di pace
della stretta di mano
è sostituito da quello
del “namaskar” indiano,
il saluto a mani giunte.
La musica è su ritmi popolari “tamil”,
ma fatta con strumenti elettronici.
Usciamo dalla chiesa
senza dire una parola.
Senza dire una parola
saliamo sul pullman.
Solo il nostro
corrispondente locale,
che ci ha raggiunto in chiesa,
mi rivolge la parola.
Si chiama Joseph.
Siamo diventati amici.
E’ un cattolico indiano.
“Strano, vero?”.
Gli faccio cenno di si
con un lento movimento
della testa.
LA BRANDINA DI GANDHI
La casa dove ha vissuto
a Bombay, ospite di un amico,
il Mahatma Gandhi,
è di una spoglia bellezza.
La brandina per terra,
l’arcolaio.
Su una scansia tre libri:
la Bibbia, il Corano
e Il “Bagavat-Gita”
(Il Canto del divino Signore),
che è considerato
il Vangelo degli hindu.
Il “Bagavat-Gita”,
che è una sezione del grande
poema indiano “Mahabarata”,
è un libro bellissimo.
Krishna rivela ad Arjuna,
che è un guerriero
di casta kshatrya,
la seconda per importanza
nel sistema delle caste indiane,
dopo quella dei brahmani
e prima di quella
dei commercianti e dei coltivatori,
i doveri della pietà e dell’azione.
Dare un’occhiata al “Bagavat-Gita”
nella casa di Gandhi
fa una certa impressione.
TRAMONTO SUL GOLFO DI BOMBAY
I colori del tramonto
sul golfo di Bombay
si impastano
con le sensazioni più diverse,
comprese quelle suscitate
dallo spettacolo
di un’umanità miserabile
che si assiepa
sulla strada che conduce all’aeroporto.
Con i bambini che razzolano
sui bordi di scoli a cielo aperto.
Mi viene in mente
il sorriso di quella bimba
sulla scaletta dell’aereo,
gli occhi dei bambini
incontrati lungo il viaggio,
che nel sud sono neri di pelle
e che spiccano illuminati
da una luce particolare.
C’è qualcosa in quella luce.
Come in questa terra,
dove è possibile cogliere
il senso delle cose e della vita
e il suo assoluto abbrutimento.
Mi chiedo -forse inutilmente-
se riuscirò mai a capire l’India,
nonostante tutti gli studi,
nonostante tutti i viaggi,
nonostante tutta la mia
voglia di comprenderla.
Quello che mi rimane
è un senso quasi di
incompiutezza.
Ma che appartiene
all’angolo visuale
delle mie domande
e non a quello che vedo.
FENG SHUI (BUON AUSPICIO)
Hong Kong, la città
del “non luogo”
metropolitano.
Quando la si vede
nel Mar Cinese Meridionale,
da lontano, si ha l’impressione
di nuotare in un acquario.
Un acquario gelatinoso,
melmoso,
soffocante come un sudario.
E’ certo una prima impressione,
ma è difficile scrollarsela
di dosso definitivamente.
Incide senz’altro il clima
tropicale, il traffico,
la ristrettezza degli spazi.
La città si sviluppa
tutta verso l’alto.
Arranco dietro un amico
che mi fa da guida.
In questo “non luogo”
persiste una credenza
antica,
geomantica e superstiziosa,
il “feng shui”, il buon auspicio,
che ingarbuglia con le sue regole
capricciose la rete
del labirinto urbano.
C’è un “feng shui”
anche per gli uomini?
Ce n’è uno anche per me?
UNA SPONDA IN PARTICOLARE
DUE IMMAGINI DI ELEA
Mi ha fatto una strana impressione
visitare le rovine di Elea questa mattina.
A vederla adesso è ben messa,
c’è un ingresso ornato di fiori, persino un museo.
Una volta non era così.
Un particolare mi ha riportato alla mente
un’altra mattina, di tanto tempo
prima. Il professor Napoli,
l’archeologo che l’ha scoperta,
raccontava a mio padre i particolari
della sua meravigliosa avventura,
e mio padre ascoltava e mi teneva per mano,
avrò avuto sei o sette anni.
Non ci capivo niente ma ero affascinato
da quell’anziano signore che parlava
con tanta convinzione di un paesaggio
che vedeva solo lui.
Io vedevo due pietre e un dirupo.
Secondo lui sotto la terra si nascondeva
una città che era stata gloriosa,
l’antica Elea che in latino era diventata Velia.
Ora Elea si vede, come aveva previsto
il professore. Ed è bellissima.
Non immaginavo allora che avrei preparato
il mio primo esame all’università
su un testo di un grande eleate, Parmenide
e sui paradossi del suo allievo Zenone.
Ma stamattina non pensavo a Parmenide,
ma a mio padre, che riposa in pace
in un cimitero poco lontano.
A quella stretta di mano.
LE TONALITÀ DEL SOLE
Lungo il Sinni misantropico,
quasi inerte, duro e assolato
la natura si raccoglie
in piccole isole di attività.
Il resto è arcaico silenzio,
che si modula oscuro in base
alle tonalità della voce delle Ore,
le divinità del luogo.
E’quando dai monti dell’interno
discendiamo a Maratea
che la tastiera si apre
come un ventaglio plaudente.
Qui il sole dà il meglio:
luccicante sugli scogli aguzzi,
cauto e melodico sulle piccole
spiagge sedotte dalle acque.
Guizzante in mare aperto,
in preda a una frenesia
fragorosa, ebbra della
mia stessa vitalità.
Ora la voce delle Ore tace,
ammutolita da un più vasto disegno,
che delinea e confonde
il confine tra passato e futuro.
DESCRIZIONE DEL PARADISO
Uno di noi propone una fermata
ha visto qualcosa, vuol fare una foto.
Ci stiamo arrampicando su stradine
che serpeggiano sulla costa
a strapiombo sul mare, seguendo
vecchi sentieri di altezza variabile.
Dalla Calabria bassa di costa
stiamo salendo verso
la Basilicata antica e leggendaria,
rocciosa e aggettante,
in un paesaggio di montagne che ha i piedi
nel mare, quasi senza insenature,
senza preludi e senza pause,
che accarezza ed evoca segrete paure.
Chi soffre l’altezza qui non si avventura,
può sentirsi male al solo pensiero.
La macchia mediterranea è a tratti folta
e poi si dirada, emergono speroni
e rientranze. Poi si oscura, nella distesa
di vegetazione spontanea ed odorosa
di finocchietto che dà il nome alla zona.
Si chiama maratìa, da qui Maratea,
che un’ingannevole etimologia può
far risalire a Dea del Mare. Dea lo è,
ma per altre assonanze, per nascoste,
spettrali caratteristiche notturne.
Si dice che il paese abbandonato
sotto il Cristo di notte sia abitato
da fantasmi della gente di tre etnìe.
Ecco, ci fermiamo. La pausa asseconda
varie sensazioni. Io mi giro, di spalle
ho tre piante di fichi d’India,
che il sole in traiettoria di discesa
colora di struggente attesa,
di ombre variabili, che mi proietta
una strana luce sul viso.
Un serpentello sguscia da un sasso.
E’ un attimo. Si dilegua.
Non ho fatto in tempo a riconoscerlo,
una biscia, una vipera o un’altra specie.
Il suono delle cicale è assordante.
Mi sembra che in questo momento
stia aumentando di intensità,
mentre il sudore mi bagna la schiena,
ma lo sento benefico, salutare.
Anche sulle braccia e sul viso.
Perché ho la sensazione di aver visto
già questa scena? Di averla già vissuta?
Che cos’era, un sogno? Un’altra vita?
Si, forse un sogno di quando avevo
un’altra età, di quarant’anni prima.
Ricordo che aveva anche un nome
quel sogno lontano, nella prima scena
della vita, all’alzarsi del sipario.
Si chiamava Paradiso.
LA MARINA DI ASCEA
Sono tornato in una sera di recente,
su quella pianura sul mare
dove in un punto polveroso,
dietro un pallone,
in quell’ora, in quel momento
con quella luce che in agosto
preannuncia l’inverno
una comunità di ragazzini
si riconosceva in un unico
desiderio prima di incamminarsi
sul sentiero della vita:
emigrato, manovale, avvocato;
e dimenticare la voglia di correre
fino a perdere il fiato.
Li vedevo – mattina presto-
dalla mia villa di borghese,
straccioni e sontuosi
con le loro magliette
che citavano glorie lontane,
con muscoli guizzanti
come anguille sotto
il sole generoso.
Mi invadeva un impetuoso
desiderio di chiamarli
tutti fratelli e mischiarmi
fino a sera, come facevo,
in quel gesto di comunismo
spontaneo, mediterraneo;
e perdersi
era un ritrovarsi,
anche tra i calci
e la polvere nel naso.
LA MUSICA DELLE CICALE
E’ tornato il suono delle cicale
felicemente alternato
in cori multipli e plaudenti.
Si rispondono a intermittenza
da un cespuglio all’altro,
da un albero al successivo.
Il suono si modula
come una colonna sonora,
finemente sintonizzato
sulle fluttuazioni del caldo
ed è basato
su una musicalità tutta ritmica,
su una sola nota.
Canta il maschio.
Sembra musica stocastica,
ma è un canto d’amore.
RE LUCERTOLA
E’ una mano gentile che ci guida
in una mattinata baciata dal sole
a prendere quel posto tra scogliera e spiaggia
che ho sognato da quando sono arrivato.
Come un segno di benvenuto assai gradito.
Dietro si schiude il fresco di un albero di carrubo,
la corta spiaggia e davanti il mare odoroso e chiaro.
C’è chi dice che la bellezza confina
con la malinconia. Deve essere questo
sentimento che mi sollecita ora corde segrete,
mentre cerco di leggere pagine di epoche lontane
lambite da una luce soprannaturale.
Il cielo infatti si distende come una coperta
all’incontrario. Benevolo e netto. Preciso
e di un azzurro compatto.
Su un masso c’è una lucertola che prende beata
il sole. Non fa cenno di essersi accorta della mia
innocua presenza poco lontano. Chiude e apre
palpebre indifferenti nella quiete dell’ora,
il primo pomeriggio di un incanto assoluto.
Ha la posa di un re e sembra ignara di lontani
esoterismi alla Jim Morrison. E’ piuttosto
la posa di una regalità mediterranea.
Re lucertola è un re fratello. E’ lo spirito del luogo.
IL MALUMORE DEL MARE
Lo riconosci il malumore del mare
quando cambia la frequenza
delle sue onde sugli scogli e a riva,
ma in modo particolare;
non sempre questo può voler dire
che è in procinto di agitarsi.
Qualche volta è solo un tributo che paga
a onde sorelle che si sono mosse lontano.
E lui le accontenta, ma ammicca
in direzione uguale e contraria.
Ma stasera il mare è di malumore.
Lo sento. Comunica. Avanza.
Sbatte con violenza.
Come il vento che lo percorre.
Quando il mare è di malumore,
meglio lasciarlo stare, come dicono
vecchi pescatori che non misurano
il vento in nodi, ma in sbavature
di sensazioni. Lascialo stare il mare.
E guarda il cielo, in una certa direzione.
Sembra somigliare
a una mia sensazione.
Quando la sento pulsare,
meglio lasciarmi solo, come il mare.
ECOSCANDAGLIO
Basta un minimo di moto ondoso
a piegare e sballottare la barchetta su cui siamo.
Ma a piace quello che c’è sotto, sul fondale.
Il gozzo ha un ecoscandaglio provvidenziale:
quando un branco attraversa lo scafo
appaiono sul display i disegnini dei pesci
con la relativa profondità e direzione.
La maggior parte del tempo la passo lì,
a osservare attratto e incantato,
con le mani piegate sotto il viso.
Chi mi guarda dice che ho un sorriso.
I disegnini mutano col variare dei branchi
fino a una profondità di cento ottanta metri,
poi si perde la traccia. E spesso si perde.
E’ il disegno e il profilo del fondale
che è irregolare. Ci sono fosse, anfratti, gradoni.
Si stagliano in questo modo i regni astratti
di quel mondo inferiore e dei suoi abitanti.
Questa animazione semovente e abissale
somiglia stranamente al mio mondo interiore,
con pensieri e sensazioni che si muovono in branchi
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