Antonio De Lisa- Il sorriso della steppa. Viaggio a Samarcanda e dintorni
Tashkent
A Tashkent, capitale dell’Uzbekistan, è quasi mezzanotte. Temperatura 16 gradi. Ottima, né caldo né freddo. La vera avventura comincia domani, ai margini della steppa, a nord, a Khiva. L’aereo è prestissimo, ma ne vale la pena.
La prima impressione di Tashkent è quella di una città sovietica, con dentro un’anima turco-mongola. La lingua più parlata è il russo. Nonostante sia una città musulmana non ho visto una sola donna col velo.
Il mondo musulmano non è un blocco unitario, come lo immaginiamo noi.
Il miglior modo per conoscere veramente un posto è commettere degi errori. Stordito dal viaggio e dagli orari non mi sono accorto che qui le cose funzionano alla sovietica: c’erano due navette, una per i turisti e l’altra per il resto del mondo. Rigida divisione: mi sono trovato nella fila degli indiani e dei pakistani in transito, varia umanità che il mondo lo gira per lavoro. Una addetta all’aeroporto si è accorta del mio errore e mi ha fatto aprire una decine di porte per ricondurmi nell’alveo della “civiltà”, quella dei turisti occidentali con cartamoneta preziosa al seguito.
Avevo fatto conoscenza con una famigliola indiana che stava per imbarcarsi per quella destinazione e stavamo chiacchierando. Veniva da Roma, immigrati, ma con permesso di soggiorno…
Qualcuno sta suonando il pianoforte nella sala di entrata dell’albergo. Strana sensazione. Il piano è un po’ scordato ma non fa niente, anche la musica è un po’ scordata ma non fa niente. Tra i marmi e i tappeti dell’Asia centrale questa musica non ci sta male. Siamo giusto in tre: io qui perché è l’unica zona con il wi-fi. Una coppia di moscoviti che gorgoglia vezzeggiativi in una angolo.
Il resto dei turisti si sta lanciando in una sala lontana in danze lascive. La musica che arriva da lontano è del tutto sintetica.
Ecco, ora ha smesso. Resta solo il pianoforte
Khiva
Qui a Khiva siamo veramente fuori dal mondo. La strada per arrivarci è la più impervia che abbia mai fatto: 500 km di sterrato, buche, voragini, polvere. Nel bel mezzo della steppa. Con un cielo basso e lattiginoso.
Ma rrivati a Khiva lo spettacolo della città cinta da mura e fango ha l’apparenza di un sogno. La notte pochissime luci e un silenzio surreale tra moschee e madrase.
Khiva era una citttà sulla via della seta. Di tutta la grandezza passata è rimasta l’architettura: palazzi, maioliche e colonne scolpite in legno. Un sogno notturno non saprebbe immaginare niente di meglio.
E’ facile cadere nell’esotismo nel parlare delle città dell’Uzbekistan. Quando si descrivono queste cose di solito si parla della parte centrale delle città, tutt’intorno c’è uno spettacolo di miseria (anche se molto dignitosa) da togliere il respiro. Basta un po’ di pioggia e le strade si trasformano in torrenti di acqua sporca e fango. L’acqua dei rubinetti è imbevibile. Le case sono coperte da tetti di lamiera. Ma quando si entra nella città antica si varca la soglia di un altro tempo e di un altro spazio. Le madrase (scuole coraniche) a specchio l’una di fronte all’altra con le cupole dei minareti maiolicate di azzurro e di verde (i colori del paradiso), le moschee con il porticato all’aperto con colonne scolpite che si trovano solo qui, tutto questo è lo spettacolo che si apre al di là del sipario di una difficile modernità. Va preso tutto in blocco, senza facili esotismi, ma anche senza uggiosi moralismi. Il mondo è questo.
Mi colpisce la gente. Quello uzbeko è un popolo dalla gentilezza commovente. A Khiva e a Bukhara si vede un incrocio di etnie da capogiro: caratteri mongolici, siberiani, turcomanni, tagiki, persiani. Queste città sono state il crocevia di tutto il commercio mondiale per secoli. Hai lo zaino aperto? Ti avvertono che è aperto, senza ficcarci le mani dentro. Ti sei perso, ti accompagnano personalmente a destinazione senza chiedere niente in cambio. Le donne e gli uomini si fanno fotografare senza sospetti. Queste genti vivono la loro religione in maniera molto personale, poco militante. Settant’ anni di comunismo hanno agito da rullo compressore sulla religione. Quello che interessa veramente a un uzbeko è la sua famiglia. Per un popolo che è stato nomade il centro del suo mondo è la sua yurta, la tenda dei nomadi.
Bukhara
A Bukhara “no” si pronuncia in tre modi diversi: “yok” in uzbeko, “ne” in tagiko, “niet” in russo. Questo per dire la mescolanza radicale delle lingue: l’uzbeko è una lingua della famiglia uralo-altaica, il tagiko è un turco con profondi influssi persiani, il russo una lingua indoeuropea. Non esiste il concetto di purezza linguistica. La tolleranza è prima ancora linguistica che religiosa.
Oggi abbiamo visitato una sinagoga ebraica, a Bukhara. A duecento metri dalla moschea principale della città. Una sinagoga perfettamente funzionante. E’ una antica tradizione asiatica quella della tolleranza religiosa. Qualche volta mi viene da pensare che siamo noi i veri intolleranti. Certo, il discorso andrebbe molto articolato. Ma dove non si è in presenza di un conflitto etnico (e politico), come per esempio in Medio oriente, l’Islam non sembra particolarmente intollerante. Quello che noi chiamiamo fondamentalismo appare più una risposta all’Occidente che un carattere intrinseco del mondo musulmano. E su questo ci sarà molto da riflettere.
Sulle orme del matematico Peter J. Lu (di lontana origine uzbeka) a studiare le simmetrie dei mosaici islamici in Uzbekistan, che R. Penrose ha definito (diversi secoli dopo) quasi-cristalli-
Una fuga di archi a sesto acuto. Il bianco delle colonne e le ombre della profondità. Così cominciano a sedimentarsi i percorsi, i luohi e i volti. Perdono i loro colori le cose del paese più ricco di colori di tutta l’Asia centralle. Qui è tutta una sinfonia di colori. Ma nella notte di Tashkent non si riesce a capire se fuga è quella di venire qui o quella di andarsene.
Di ritorno a Tashkent
Dopo un lungo giro sono tornato nella capitale dell’Uzbekistan, Tashkent. E’ passata da poco la mezzanotte. Ho un aereo alle tre. Ho pensato che è inutile andare a dormire. Ne approfitto per riordinare le idee e le impressioni che mi si affastellano nella testa. Ci vorranno mesi per assimilare quello che ho visto. Nell’atrio dell’albergo non c’è nessuno. E’ il momento migliore. Arriva una musica da lontano ma non riesco a capire da dove. Come un sussurro. Le impressioni stanno per diventare ricordi. Conosco ormai queste sensazioni, ma non riuscirò mai ad abituarmici. Lascio sempre pezzi di me in giro qui e lì. Fino a che a un certo non mi raggiungeranno. Tutti insieme.
Samarcanda
A Samarcanda anche i pensieri si pongono in prospettiva. Quello che sembrava importante perde senso, le piccole cose ne acquistano. Ma devi avere la giornata tutta per te. Misurare lo spazio. Inoltrarsi nel mercato sfavillante si spezie. Accettare che la tua piccola storia e la grande Storia siano inguaribilmente sfasate. La condizione più appropriata per Samarcanda è quella del flaneur. Lo spazio ti riempie.
A Samarcanda per merito dell’emiro Ulug Bek esisteva un’astronomia avanzatissima già all’inizio del ‘400
La notte di Tashkent scorre tranquilla. Stanno per scoccare le 2 di notte. Manca poco all’ora in cui dovrò andare all’aeroporto. Immagini rapsodiche e fuggevoli mi legano ancora per pochi attimi al posto che sto abbandonando. Qualcuno l’ha definita Via della seta, il luogo degli incroci e dei commerci, una volta anche degli agguati e del sapore acre del sangue. Nella steppa non ci sono confini e le appartenenze sono lievi e sfumate. Tutto ciò, dall’alto di un aereo, fra poco, assumerà altro significato.
Delle numerose forme di nomadismo alcune curano, altre distruggono. C’è una grande letteratura sull’argomento. Psicoanalisti e filosofi vi riflettono da secoli. Il nomadismo meditativo ti aiuta a controllare stress e ansia: non ti devi mai preoccupare, di nulla. C’è un problema? Lo supererai. Hai perso un treno, prendi il prossimo. Tu non sei veramente padrone del tuo tempo-spazio, ti devi abituare ad adattarti alle circostanze come un giunco. Più ti adatti più entri veramente in te stesso e percepisci di che stoffa sei fatto. Se appena appena scopri che la tua stoffa è anche solo discreta, diventi felice.
Sono nell’aeroporto di Fiumicino a Roma, arrivato dal lungo viaggio di ritorno dall’Uzbekistan, ma non è del viaggio che voglio parlare in quest’ultima nota, ma della sensazione che mi danno aeroporti e stazioni ferroviarie: il gaudio sommo. La gente, l’odore di caffè e di toasts, quella leggera nausea dopo un viaggio, il caldo e il freddo che si alternano con miseriose alchimie. E anche se sono appena arrivato, la voglia di guardare le partenze. Tutto ciò mi ricorda qualcosa, ma cosa? Ah, ecco, le sensazioni che provavo quando da ragazzo tornavo da qualche concerto in giro per l’Europa. La stanchezza che dà vigore, l’energia che si scioglie sulle strade. La gioia dei Diciassette anni. Diciassettenne a vita.
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