Antonio De Lisa- Diario di viaggio nell’India del sud

Antonio De Lisa- Donna a Madurai (India del sud)

Antonio De Lisa- Diario di viaggio nell’India del sud

L’India nella stagione di “chaitra” (la nostra primavera) è una sinfonia di suoni, colori e sapori prima dell’arrivo della stagione dei monsoni, distruttiva e vitale per questo paese che deve dar da mangiare a un miliardo di persone. In due settimane non ne potrò cogliere che qualche vago accenno. Si tratta di capire dove realmente sia il confine, dove realmente il contatto con il sub-continente cominci. Sulla scaletta dell’aereo dell’Air India che da Roma ci porterà a New Dely e poi a Bombay, mi precede una giovane donna in “sari” (il costume tradizionale indiano) con in braccio la figlioletta di quattro o cinque anni che si gira verso di me, che le sono dietro, e mi sorride. Sulla fiancata dell’aereo, a metà della scaletta d’imbarco, leggo la scritta in inglese: “Your Palace in the Sky”. Quel sorriso, quella scritta sono di buon auspicio, come direbbe un hindu. Senza che me ne sia accorto, sono dentro. La Madre India mi ha sussurrato il suo benvenuto.

La mia compagna di viaggio è una signora inglese di Manchester che va a Bombay, ribattezzata oggi Mumbay. Ha un completo nero e le scarpe rosse; le si indovina un’antica bellezza. Nella fila centrale due coppie di indiani, lenti e solenni nei preparativi del viaggio. Un signore più indietro indossa il turbante, il segno distintivo dei Sikh. 

L’idea è quella di fare un’escursione nell’India del sud attraverso tre stati, il Tamil Nadu, il Kerala e il Karnataka, dalla costa del Coromandel nel golfo del Bengala (India sud-orientale) a quella del Malabar nel Mar Arabico (India sud-occidentale). In queste zone si conservano meglio che altrove le testimonianze più importanti dell’arte e dell’architettura templare induista. Infatti il periodo di massimo splendore dell’architettura sacra induista dell’India settentrionale ebbe termine nel XIII secolo a causa della conquista musulmana, che comportò l’arresto della costruzione di nuovi templi e la distruzione sistematica di molte strutture preesistenti. Al sud, invece, dove la conquista musulmana non giunse o non fu predominante, si è continuato a erigere templi fino a tempi recentissimi.

L’India meridionale è la culla di quella che gli stessi indiani chiamano musica “karnatica”, la musica classica indiana, che ha caratteri propri e diversi rispetto alla musica “hindustan” del Nord, che ha subito, come la lingua, le influenze della musica centro-asiatica, musulmana e persiana, portata dai conquistatori turchi nell’epoca delle invasioni dei Moghul. Al Sud tutto è più puro da un punto di vista induista. La devozione religiosa, chiamata “bhakti”, è intensa, vissuta, pervasiva. Qui l’aspetto severamente monistico dell’essere supremo brahmanico appare in una debordante proliferazione di dei, figure divine ed emblemi. Le figure più importanti della mitologia hindu sono tre (la “trimurti”  induista): Brahman, il dio creatore, la cui sposa o “paredra” è Sarasvati, dea della musica; Vishnu, il dio conservatore, che ha nove “avataras” (incarnazioni), la più importante delle quali è Krishna, protagonista, insieme all’eroe Arjuna, del più grande poema epico indiano, il “Mahabarata”. Sposa o paredra di Vishnu è Lakshmi, la dea della ricchezza; Shiva, il dio distruttore, la cui sposa è Parvati. La coppia ha due figli: Skanda, dio della guerra e Ganesh, il dio della prosperità e della buona fortuna, fatto segno dagli indiani di un culto del tutto speciale.

Cennay (Madras)

Madras, ribattezzata Cennay (gli indiani stanno cambiando nome a molte città), città affacciata con le sue spiagge e i suoi cinque milioni di abitanti sul golfo del Bengala, capitale della regione del Tamil Nadu, è la nostra prima vera tappa su suolo indiano. Appare grande, immensa, formicolante. Ma nonostante l’apparenza non c’è molto da vedere, se si esclude un museo in pessimo stato di conservazione, il “Government Museum”, con la sua splendida raccolta di bronzi dell’India meridionale tra le quali il simbolo di tutta l’arte indù: lo “Shiva nataraja” (Shiva danzante) e quella della statua di Ardhanishvara, il “Signore la cui metà è femminile”, unione di Shiva e della sua “shakti”, eseguita nell’XI secolo nella zona di Tanjore. Questo paese, che ha una memoria portentosa, una memoria di tremila e cinquecento anni, ha in compenso un debole senso della storia. Per un hindu ha un senso solo quello che possiede una funzione attuale: le formule vediche per le preghiere (il più antico dei “Veda”, libro rituale fondamentale dell’induismo, per fare un esempio, il “Rig-Veda”, è del X secolo a.C.). I templi per le funzioni sacre, e ce ne sono di antichissimi, sono conservati in ottimo stato. Un museo, invece, che rientra nelle categorie della storia e non in quelle della memoria funzionale al culto, è cadente e visitato solo da turisti.

La memoria storica di Madras ci racconta che nel 1640 divenne la prima sede della “Compagnia britannica delle Indie orientali”. Inoltre, una leggenda vuole che vi sia morto, su una collina, l’apostolo Tommaso (Mount Saint Thomas). Nel XIX secolo fu la sede della Presidenza di Madras, una delle quattro divisioni della British Imperial India. Scivolando da Madras passiamo nel quartiere di Adayar con le sue dimore coloniali inglesi, in una delle quali è ospitata la “Theosophical Society”, fondata a New York nel 1907 da H. Olcott e Helena Petrovna Blavatsky, la cui sede fu trasferita ad Adayar nel 1882. Mi vengono in mente le speculazioni del musicista Alexadr Skriabin, uno dei tanti toccati dall’India. Fantastico, per associazione di idee, sulle letture wagneriane del “Mahabarata”. Forse è tutta da scrivere la storia dei rapporti tra la musica occidentale e la cultura indiana.

Kanchipuram

Per arrivare a Kanchipuram attraversiamo la campagna indiana, con i suoi villaggi, le sue case sul bordo della strada. E’ molto presto, la gente ha appena finito, per chi ha voluto, la “puja”, la preghiera rituale del mattino. Sulle soglie delle povere case a un piano, ornate da disegni geometrici in gesso per buon augurio (questo è un giorno di buon auspicio), la gente è intenta al “dantha-devana” (pulizia dei denti), che avviene con le foglie di un albero particolare, camminando davanti all’ingresso, tra bambini che giocano e donne che vanno ad attingere l’acqua nel pozzo. E’ uno sfavillio di colori. Fa già molto caldo. A un incrocio un brahmino (sacerdote induista) recita una preghiera davanti al tempietto di un serpente, nella destra il fuoco, nella sinistra una campanella.

Kanchipuram, detta anche Shiva Vishnu Kanchi, è una delle sette città sante dell’induismo, capitale dei Pallava, dei Chola e dei Vijianagar, una spettacolare città templare irta di “Gopuram” (templi).  E’ una delle più antiche città dell’India del sud, associata nella “Bhagavata Purana” a Kamakati, la dea shivaitica Kamakshi. Si dice che vi avrebbe soggiornato il Buddha. A Kanchipuram ci sono due templi di assoluto interesse: il Tempio di Ekambareshwara e il Tempio del Kailashanatha.

La sera torniamo a Covelong, dov’è il nostro albergo, un vero incanto: si chiama  “Fischerman’s Cove. Non conserva tracce del turismo religioso occidentale degli anni Sessanta, quando era possibile vedere, mi dicono, intere città notturne di sacchi a pelo sulla spiaggia. A Covelong decidiamo di comune accordo, per una modica spesa in “rupie” (la moneta indiana), di fare i turisti. Cena sulla spiaggia del golfo del Bengala, a base di granchi e di ogni specie di pesci e di frutta. Fa molto caldo, circa 36 gradi di giorno, 26 di notte. Vorremmo fare il bagno nell’oceano indiano, ma non si può, è pericoloso. Ripariamo sulla piscina a tre livelli, ma l’acqua è più calda della notte indiana.

Gli “shore temples” di Mahabalipuram

Mahabalipuram, sulla costa, 320 Km a nord di Tanjore e 54 Km a sud di Madras è famosa per i suoi “shore temples” (templi sulla spiaggia). A Trichy c’è il  “Rock Fort Temple”, monumento appollaiato su una roccia, e si può vedere una centrale nucleare, da lontano l’isola di Srirangam, a pochi chilometri da Trichy, dove sorge un’immensa città-tempio dedicata a Vishnu; cinta da sette giri di mura è un vero e proprio dedalo di strade, con negozi, case e templi.

Qualcuno della comitiva di italiani cui mi sono aggregato nella visita alla regione del Tamil Nadu osserva che l’indomani è il 5 aprile, la Pasqua dei cristiani. Voci di consenso e di dissenso. Quel qualcuno chiede in giro, in un inglese approssimativo,  se ci sia una chiesa cattolica e riceve una risposta affermativa. L’andiamo a vedere: è un’immensa costruzione in stile gotico ma senza guglie e tutta dipinta di giallo, con le modanature più scure, sul marrone. Fa un certo effetto. L’indomani ci presentiamo alla funzione, che si tiene alle otto di mattina. L’interno produce un effetto migliore. Non ci sono panche o sedili. I fedeli sono inginocchiati per terra. Vestono in “sari” le donne, gli uomini hanno abbandonato per un attimo il gonnellino (“doti”) che è il costume maschile nazionale del Tamil Nadu e indossano dei calzoni, ma sono scalzi.

Anche la madonna sull’altare è acconciata in un “sari” multicolore. Il sacerdote è molto professionale, addobbato con i paramenti sacerdotali, ma scalzo. La messa è in lingua “tamil”, una lingua “dravidica” di origine non “arya”, è la lingua dei sottomessi, non dei conquistatori. La messa mi sembra del tutto conforme; ma il gesto di pace della stretta di mano è sostituito da quello del “namaskar” indiano, il saluto a mani giunte. La musica è su ritmi popolari “tamil”, ma fatta con strumenti elettronici.

Usciamo dalla chiesa senza dire una parola. Senza dire una parola saliamo sul pulman. Solo il nostro corrispondente locale, che ci ha raggiunto in chiesa, mi rivolge la parola. Si chiama Joseph. Siamo diventati amici. E’ un cattolico indiano. “Strano, vero?”. Gli faccio cenno di si con un movimento della testa.

Madurai

Madurai, “benedetta dal nettare che sgocciolò dalla capigliatura di Shiva”, importante centro di cultura tamil, è una città di un milione di abitanti. Visitiamo il tempio più importante. Quello di Meenakshi-Sundareshvara è un santuario doppio, costruito nel XVII secolo, di stile Vijanagar, consacrato a Sundareshvara (Sundareshvara è una poetica attribuzione di Shiva che significa “Il Signore dal bell’aspetto”) e alla sua “paredra” o sposa Meenakshi (“Colei che ha l’occhio in forma di pesce”), in realtà una divinità autoctona che in seguito è stata  assimilata all’energia femminile (“shakti”) del dio: una grande madre acquatica che veglia sulle creature con occhi bene aperti (come quelli di un pesce). Nella mitologia hindu il volto femminile del dio diventa la sua sposa Parvati. Come si è detto, il tempio è “doppio”, una metà dedicato a Shiva, l’altra a Parvati

Stato del Kerala

L’indomani varchiamo le frontiere dello Stato del Kerala, che presenta un paesaggio molto diverso dal Tamil Nadu. Dopo aver attraversato la barriera dei Gats occidentali, che si sviluppano in altura, l’aria è molto più rarefatta. La riserva di  Periyar comprende principalmente un ampio lago artificiale intorno al quale nidificano numerose specie di uccelli, anche del tutto particolari, come il bucero e il gufo di palude. La riserva è un ottimo habitat per l’elefante asiatico. Uno scRoscio d’acqua verso il tramonto ne porta verso la riva un gruppetto. Li vediamo, mentre la barca scorre lentamente sotto un cielo minaccioso. Vi sono poi tigri, leopardi, bisonti, sciacalli, lucertole, serpenti volanti, pitoni, cobra.

Thekkady

Thekkady pullula di negozi per turisti, non tutti di cattivo gusto: vendono “chappals”  (i sandali in pelle di bufalo), e cuoiami in genere, sempre di bufalo, ovviamente, gilet del Kashmir, bijiotteria varia, tappeti, miniature su seta spacciate per antiche, incrostazioni in marmo, oggetti in cartapesta, ceramiche, oggetti metallici, soprattutto in rame e ottone, dai candelabri alle tazze, ai vassoi, gioielli, figure di bronzo, sculture in legno, abiti e “sari”. I tessuti esposti provengono dai villaggi della zona. La produzione tessile in loco si chiama “khadi”.

L’abbondanza di oggetti è un dato che si riscontra praticamente dappertutto, infatti l’India è una grande produttrice di oggetti e manufatti  artigianali.  Poi ci sono anche dei posti interessanti per altri motivi. Uno spaccio di medicina “ayurvedica”, un centro massaggi sempre ayurvedico, sgabuzzini dove vendono le spezie che si producono in loco. Entriamo in uno di questi posti, ma dobbiamo contrattare al lume di candela perché l’amministrazione comunista dello stato raziona l’energia elettrica: mezz’ora a turno.

Tempio di Belur

Mentre ci dirigiamo al Tempio di Belur facciamo sosta in una specie di bar lungo la strada a bere il “chai”, il té indiano fatto bollire nel latte, che ha un sapore discutibile. E’ più graziosa la manovra di raffreddamento da parte di chi lo prepara, che passa il liquido da un bicchiere all’altro, tenuti a grande distanza. La televisione è accesa. Nessuno di noi si aspetta di capire granché in un telegiornale in “kannada”, la lingua del Karnataka. Ma all’improvviso si sente parlare inglese. E’ il portavoce del ministro degli esteri indiano che annuncia impassibile: “Dopo undici mesi e undici giorni, alle undici di mattina l’India ha fatto esplodere nello Stato dell’Orissa una nuova testata nucleare”. Ci guardiamo costernati. Sullo schermo appare la sagoma del missile, con il suo nome bene in evidenza: Agni II. Agni è il dio del fuoco nella mitologia hindu.

E’ ancora senza una sola parola che risaliamo sul pulman. Le contraddizioni dell’India ci sembrano insormontabili. Nei campi i contadini spingono ancora a braccia le vacche da traino per arare la fertile terra indiana. Vijipayee, il capo del Bjp e del governo, fa esplodere le testate nucleari.

Mumbai (Bombay)

L’aereo che da Bangalore, la città dell’industria elettronica, una delle più avanzate del mondo, ci riporta a Bombay vola nella notte indiana, calma, tranquilla, piena di luci. E’ Bombay all’arrivo che esplode di suoni come a mezzogiorno. L’atrio è assiepato da pellegrini musulmani che attendono il ritorno in patria dei loro congiunti partiti per il pellegrinaggio rituale alla Mecca. La religione in India muove le forze dei popoli con un’attrazione contagiosa. Per avere un qualche paragone bisogna immaginare l’Europa dei Anni Dieci e Venti, l’Europa dell’ingresso di grandi masse sulla scena della storia. In India è la religione che muove la storia. Lo si vede dappertutto, lo si respira nell’aria. A tutti i livelli della vita sociale.

La casa dove ha vissuto a Bombay, ospite di un amico, il Mahatma Gandhi, è di una spoglia bellezza. La brandina per terra, l’arcolaio. Su una scansia tre libri: la Bibbia, il Corano e Il “Bagavat-Gita” (Il Canto del divino Signore), che è considerato il Vangelo degli hindu. Il “Bagavat-Gita”, che è una sezione del grande poema indiano “Mahabarata”, è un libro bellissimo. Krishna rivela ad Arjuna, che è un guerriero di casta kshatrya, la seconda per importanza nel sistema delle caste indiane, dopo quella dei brahmani e prima di quella dei commercianti e dei coltivatori, i doveri della pietà e dell’azione. Dare un’occhiata al “Bagavat-Gita” nella casa di Gandhi fa una certa impressione. I colori del tramonto sul golfo di Bombay si impastano con le sensazioni più diverse, comprese quelle suscitate dallo spettacolo di un’umanità miserabile che si assiepa sulla strada che conduce all’aeroporto. Con i bambini che razzolano sui bordi di scoli a cielo aperto. Mi viene in mente il sorriso di quella bimba sulla scaletta dell’aereo, gli occhi dei bambini incontrati lungo il viaggio, che nel sud sono neri di pelle e che spiccano illuminati da una luce particolare. C’è qualcosa in quella luce. Come in questa terra, dove è possibile cogliere il senso delle cose e della vita e il suo assoluto abbrutimento. Mi chiedo -forse inutilmente- se riuscirò mai a capire l’India, nonostante tutti gli studi, nonostante tutti i viaggi, nonostante tutta la mia voglia di comprenderla. Quello che mi rimane è un senso quasi di incompiutezza. Ma che appartiene all’angolo visuale delle mie domande e non a quello che vedo.

Di Nuova Delhy percepiamo solo l’alone di una città immensa. In fondo è solo uno scalo per questa volta. Ma anche qui l’atrio è animato da voci, presenze, volti religiosi. Un gruppo di fedeli lascia vibrare nell’aria corolle di petali di fiori. Hanno il turbante dei Sikh, accolgono il loro capo spirituale di ritorno da un viaggio e gli si prosternano toccandogli la punta dei piedi in segno di rispetto.

Con la lettura dei giornali sull’aereo del ritorno (“The Hindu”, “Hindustani Time”) riprende il sordo brontolio delle notizie della guerra del Kossovo. L’India è severamente critica con la NATO e gli Stati Uniti. Ma le dimissioni di un piccolo partito alleato del Bjp (il partito nazionalista hindu di Vijipayee), un partito proprio del Tamil,  sembra che provocherà la crisi del governo. Si affaccia la possibilità che la palla torni nelle mani del Partito del Congresso e quindi in quelle dell'”italiana”, come la chiamano a New Delhi, Sonja Gandhi.

Ma penso che la preoccupazione principale di un contadino del Tamil o del Kerala in questo momento sia riferita piuttosto alla natura e alla portata del Monsone in arrivo. Sulle strade di montagne dei Gats occidentali, fra Tamil e Kerala,  si vedeva già qualcuno pronto al rito propiziatorio.

Antonio De Lisa

(India del sud- Marzo-aprile 1999)

 




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