
Cogliamo al volo la possibilità di parlare della mostra “Jean Fautrier e l’Informale in Europa”, aperta fino al 1 dicembre 2002 presso la Fondazione Magnani-Rocca a Mamiano di Traversetolo, in provincia di Parma. Ad uno sguardo superficiale sembra trattarsi di una cosa lontana; di un soggetto, come l’Informale, non più tanto di moda nel mondo dell’arte; di un’iniziativa che nasce su un terreno ubertoso, di forze economiche e strategie promozionali, che riguardano più i territori “padani” che il resto del paese. Un po’ è così. Ma la mostra, ad uno sguardo appena più approfondito, è anche un indice di qualcosa d’altro. Per dirne una, di un felice incontro tra un esempio di collezionismo illuminato e illuminante (il lascito di Luigi Magnani), un gruppo di studiosi incaricati di rendere continuamente aggiornato il discorso critico sulle opere conservate (Renato Barilli, docente a Bologna, in testa, rappresentante della Regione Emilia Romagna), una cordata d’istituzioni rappresentate nel Consiglio d’amministrazione (dal Sindaco di Parma al Ministero per i Beni e le Attività Culturali, all’Istituto di Studi Verdiani, per dirne alcuni), il sostegno finanziario della Fondazione Cassa di Risparmio di Parma.
Si tratta insomma di un caso di buon governo, “farnese” potremmo dire, nella gestione di una parte del patrimonio artistico che nasce dalle iniziative di un privato. Quest’esperimento è probabilmente improponibile in altra situazione, ma resta come traccia di un possibile percorso del rapporto tra istituzioni e Fondazioni, quanto mai attuale in questa congiuntura economica, in cui si parla molto della fase propositiva delle Fondazioni, ma poco si fa per renderla operativa. E di questo sembra giustamente orgoglioso il presidente della Fondazione, Giuseppe Mazzitello, attento a convogliare risorse, quanto a bilanciare i rapporti politici e istituzionali.
La scelta delle opere in collezione è stata fatta a misura degli interessi di Luigi Magnani. Collezione in cui “non c’è opera”, per dirla con Barilli, “che non risponda alle scelte di un gusto sorvegliato e difficile”. Essa comprende una superba scelta di mobili stile impero ed esempi di pittura che vanno dal Trecento al Novecento, ivi compreso un Goya che varrebbe da solo un viaggio. La parte moderna ha avuto inizio con Renoir, Monet, Cézanne, per muoversi in un percorso che vede ben rappresentati alcuni grandi artisti italiani del Novecento, come de Chirico, Severini, de Pisis, Morandi, Leoncillo, Burri, e altri francesi e tedeschi come de Stäel, Hartung, Wols, Fautrier. Rimane tagliata fuori l’arte astratta, mentre si prediligono opere la cui figurazione è sottoposta ad un processo di reinterpretazione, di deformazione che appartiene alla cultura dell’informale europeo.
La Fondazione organizza delle mostre a partire da un’opera esposta in collezione. In questo caso si tratta di “Composition” di Jean Fautrier, del 1960, scelta dal curatore Renato Barilli, con la collaborazione dei critici Roberto Pasini e Fabriano Fabbri, come perno su cui far ruotare l’esposizione dedicata all’”Informale in Europa”, incentrata soprattutto sulle opere di Jean Fautrier (1898-1964) e Jean Dubuffet (1901-1985) (il catalogo della mostra, bilingue, italiano e inglese, è a cura dello stesso Barilli e pubblicato da Mazzotta, espressione di un’altra Fondazione, per l’appunto la Mazzotta di Milano: è un incrocio e un intreccio d’interessi e di forze che sarebbe bene tenere d’occhio).
Le opere esposte in mostra vanno da una “Nature morte” del 1925 a “L’asparagus”, del 1963, passando per “Mon pays”, del 1955 e altri capisaldi della produzione di Fautrier. La parte più rilevante è quella inscritta nel primo decennio del Secondo dopoguerra, in cui le sue opere, insieme con quelle di Dubuffet, giocano un ruolo essenziale nel rinnovamento delle arti in Europa, segnando la via informale in parallelo alle esperienze italiane, spagnole e tedesche. Opere altamente materiche. Il curatore ha parlato dell’opera dell’artista come demiurgo. Si riferisce, insieme, ai procedimenti tecnici e all’ispirazione poetica e formale che ne guida il tracciato. L’artista francese, infatti, delineava la prima immagine su un cartone montato su tela con il pennello e gli inchiostri. Si dedicava ad applicare l’impasto sul disegno tracciato; quindi aggiungeva polveri colorate e altri strati d’impasto. In questa fase spugnava e impastava la materia come si fa col pane, in un processo di manipolazione altamente simbolico. Quindi spargeva altre polveri sull’ultimo strato facendo in modo che in alcuni punti si fissassero all’impasto fresco e oleoso, in altri punti le incorporava con il pennello. Nella veste di “plasticatore” riprendeva poi il disegno rimasto coperto dalla pasta e con uno strumento metallico, molto spesso un coltellaccio, tracciava sulla pasta solchi sottili che si aggiungevano ai tratti del disegno. Si è parlato di “ambiguità”, o “duplicità”, a proposito dell’opera di Fautrier, “snodatasi via via attraverso l’adozione di forme robuste e coriacee ma anche di apparizioni fantasmatiche come ectoplasmi del primo periodo, di morte ma anche di vita nel ciclo degli “Otages” (il grumo di materia sia come carne da obitorio, sia come possibile feto), di deiezione ma anche di décor negli anni Cinquanta, quando la materia reietta che gli è congeniale si impreziosisce di tinte suadenti e raffinate, nella migliore tradizione della “finesse” transalpina, infine nella compresenza di materia e segno che caratterizza l’ultima produzione” (Roberto Pasini). Questa duplicità in fondo fa parte della vita pulsante della materia, dove vita e morte si giocano le parti.
In quest’ambiente, e la mostra lo documenta appunto con evidenza, parte non secondaria hanno le opere degli informali italiani, a partire da Giorgio Morandi, definito il “traghettatore”, per arrivare a Burri e Fontana e finalmente a Leoncillo, di cui si è potuta vedere un’importante retrospettiva quest’estate a Matera. “Quei grumi, quei bioccoli materici, nel caso di Leoncillo si estendono, si protendono, assumono forza e spessore, con l’aiuto di una sostanza fisicalmente consistente quale la ceramica, che però appartiene all’ambito della terra morbida e plastica, ben lontana, insomma, dall’ambito delle pietre dure. E sempre al seguito di questo destino fatale di dare tangibilità alle scelte di Fautrier, Leoncillo giunge a cuocere davvero le sue paste, come richiede la tecnologia specifica dell’arte ceramica” (Barilli). Ben rappresentati anche Ennio Morlotti e Mattia Moreni.
Ci sarebbe un lungo discorso da fare sulle differenze e i contrasti tra pittura “informale” e pittura “astratta”, che non coincidono affatto. Si pensi per esempio che uno dei filoni più importanti dell’arte contemporanea è quella definita “polimaterica” e che ha le sue scaturigini nel futurismo di Balla e Boccioni, per arrivare ai giorni nostri. L’”informale”è un momento di passaggio di questo tragitto, quello materico, che non nega programmaticamente la figurazione ma la reinventa e la reinterpreta in senso alchimistico e demiurgico. Quello che conta per i pittori informali è soprattutto è la resa della morbida materia plastica.
Antonio De Lisa


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